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1. I “nuovi” commi 4-bis e 5 dell’art. 47, L. n. 428/1990 e le relative problematiche interpretative alla luce della più recente giurisprudenza della Corte di Giustizia.
L’art. 368, comma 4, lett. b) e c) del D.Lgs. n. 14/2019 («Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155», d’ora in poi CCI) – entrato in vigore il 15 luglio 2022 – ha previsto la sostituzione dei commi 4-bis e 5 dell’art. 47, L. n. 428/1990, con conseguente nuova disciplina dei limiti di derogabilità dell’art. 2112 c.c. nelle procedure concorsuali.
Il nuovo comma 4-bis – sostituito appunto dall’art. 368, comma 4, lett. b), CCI – stabilisce che: «Nel caso in cui sia stato raggiunto un accordo, nel corso delle consultazioni di cui ai precedenti commi, con finalità di salvaguardia dell’occupazione, l’articolo 2112 del codice civile, fermo il trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro, trova applicazione, per quanto attiene alle condizioni di lavoro, nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo medesimo, da concludersi anche attraverso i contratti collettivi di cui all’art. 51 d.lgs. 81/2015, qualora il trasferimento riguardi aziende: a) per le quali vi sia stata la dichiarazione di apertura della procedura di concordato preventivo in regime di continuità indiretta, ai sensi dell’art. 84, comma 2, del CCI, con trasferimento di azienda successivo all’apertura del concordato stesso; b) per le quali vi sia stata l’omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti, quando gli accordi non hanno carattere liquidatorio; c) per le quali è stata disposta l’amministrazione straordinaria, ai sensi del d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell’attività».
Il nuovo comma 5 – a sua volta sostituito dall’art. 368, comma 4, lett. c), CCI – dispone che: «Qualora il trasferimento riguardi imprese nei confronti delle quali vi sia stata apertura della liquidazione giudiziale o di concordato preventivo liquidatorio, ovvero emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa, nel caso in cui la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata, i rapporti di lavoro continuano con il cessionario. Tuttavia, in tali ipotesi, nel corso delle consultazioni di cui ai precedenti commi, possono comunque stipularsi, con finalità di salvaguardia dell'occupazione, contratti collettivi ai sensi dell’art. 51 d.lgs. 81/2015, in deroga all’articolo 2112, commi 1, 3 e 4, del codice civile; resta altresì salva la possibilità di accordi individuali, anche in caso di esodo incentivato dal rapporto di lavoro, da sottoscriversi nelle sedi di cui all’articolo 2113, ultimo comma del codice civile».
Il nuovo testo dell’art. 47, nelle intenzioni palesate dal legislatore delegato del CCI nel 2019, intendeva uniformarsi alla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, consentendo all’autonomia collettiva la deroga all’effetto della continuità dei rapporti di lavoro nelle sole procedure liquidatorie nelle quali la prosecuzione dell’attività non fosse stata disposta o fosse cessata e, viceversa, inibendo ogni possibilità di derogare all’effetto della continuità dei rapporti di lavoro laddove la procedura concorsuale realizzasse la prosecuzione dell’attività produttiva in capo ad un diverso imprenditore ed anche laddove la prosecuzione dell’attività fosse disposta a seguito dell’apertura di una procedura liquidatoria.
Cosicché, l’art. 5 della direttiva 2001/23/CE, negli orientamenti espressi dalla Corte di Giustizia con le pronunce allora più recenti, consentiva alle legislazioni nazionali di derogare agli effetti che gli artt. 3 e 4 della medesima direttiva collegano al trasferimento, purché ricorressero congiuntamente tre condizioni: 1) il cedente fosse oggetto di una procedura fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga; 2) la procedura cui fosse sottoposto il cedente avesse il fine di liquidare i suoi beni; 3) la procedura fosse svolta sotto il controllo di un’autorità pubblica competente . Al ricorrere delle tre condizioni indicate, la legislazione nazionale aveva dunque facoltà di escludere il prodursi di ciascuno dei tre effetti previsti dalla direttiva in caso di trasferimento e quindi di prevedere: la deroga all’effetto della continuità dei rapporti di lavoro alle dipendenze del cessionario; la liberazione del cessionario dalla responsabilità per i crediti maturati dal lavoratore nei confronti del cedente prima del trasferimento; la modifica delle condizioni di lavoro dovute ai lavoratori trasferiti sulla base di un accordo tra le imprese cedente e cessionaria e i rappresentanti dei lavoratori.
Sennonché – come puntualmente osservato nell’ultimo numero di questa Rivista – il CCI, la cui versione in parte qua risale appunto al 2019, risulta palesemente ancorato al pregresso orientamento della Corte di Giustizia, che affermava recisamente: «per quanto riguarda, …, il requisito secondo il quale la procedura deve essere aperta ai fini della liquidazione dei beni del cedente, dalla giurisprudenza della Corte risulta che non soddisfa tale requisito una procedura che miri al proseguimento dell’attività dell’impresa interessata» .
In sostanza, la nuova formulazione dei commi 4-bis e 5 si è mossa nel solco della giurisprudenza della Corte di Giustizia, che «un po’ rozzamente separa le procedure conservative da quelle liquidatorie» .
Nel frattempo, tuttavia la Cassazione con due discussi arresti e, soprattutto, la stessa Corte di Giustizia – distinguendo opportunamente tra continuità e liquidazione, perché si tratta in realtà di parametri eterogenei e non incompatibili – hanno proposto soluzioni interpretative dell’art. 5 della direttiva 2001/23/CE che rimettono in discussione gli approdi giurisprudenziali sulla base dei quali il legislatore delegato ha “riscritto” i commi 4-bis e 5 dell’art. 47 della L. n. 428/1990.
Nello specifico, la giurisprudenza di legittimità nel 2019 ha ritenuto che il concordato preventivo sia uno strumento che consente all’imprenditore commerciale che si trova in stato di crisi o di insolvenza di poter evitare la liquidazione giudiziale attraverso la proposta di un piano che consenta di soddisfare i creditori attraverso la continuità aziendale ovvero la liquidazione del patrimonio. Nel caso di specie la Corte di appello aveva accertato in fatto l’impossibilità della continuazione dell’attività dell’azienda datrice di lavoro, per cui – ad avviso della Cassazione – la procedura concorsuale che interessava la stessa aveva necessariamente un fine liquidatorio, e ricorrevano quindi le condizioni per l’applicazione dell’art. 5, comma 1, della Direttiva. In particolare, la pronuncia ha ritenuto che «la stessa sentenza della Corte di giustizia …, nella causa C-509/17 … afferma che i requisiti dell’art. 5, comma 1, della Direttiva non sono soddisfatti da “una procedura che miri al proseguimento dell’attività dell'impresa interessata”, riprendendo la decisione nella causa C-126/16 (punto 44 della sentenza del 2019). Tale non è il caso della società datrice di lavoro, come accertato dalla Corte territoriale. Nessuna tensione vi è quindi con il diritto dell’Unione Europea con la soluzione qui adottata, essendo pacifica la sussistenza delle altre due condizioni, cioè l’esistenza di una procedura concorsuale e il controllo di un’autorità pubblica competente».
Successivamente, ancora la giurisprudenza di legittimità ha affermato nel 2021 che «in coerenza con la normativa di fonte comunitaria e di diritto interno, anche, come interpretata, nei rispettivi ambiti, dalla Corte di Giustizia Europea e da questa Corte, le procedure fallimentari concernenti le imprese cedenti rientrano pienamente (ed anzi prioritariamente) nel campo di applicazione della L. n. 428 del 1990, art. 47, comma 5 (e, corrispondentemente, nel paragrafo 1 dell’art., 5, della Direttiva 2001/23/CE) essendo ontologicamente ed esclusivamente preordinate alla liquidazione della società dichiarata fallita, rappresentando - eventuali segmenti di prosecuzione dell’attività imprenditoriale, quali l’affitto o la vendita del ramo di azienda - solamente strumenti orientati ad una funzione liquidatoria, finalizzati a conservare il valore di avviamento sul mercato per incrementare il più possibile il compendio aziendale per la distribuzione ai creditori. Nell’ambito della procedura fallimentare, invero, la eventuale continuazione dell’impresa non è più nella sua piena esplicazione ed è, comunque, sempre finalizzata alla esclusiva liquidazione dei beni. Le procedure fallimentari sono, invero, espressamente richiamate nel paragrafo 1 del comma 5 della Direttiva 2001/23/CE e soddisfano ontologicamente tutti e tre i requisiti ribaditi dalla Giurisprudenza comunitaria come innanzi illustrati (ossia, l’impresa cedente sia oggetto di una procedura fallimentare - o di una procedura d’insolvenza analoga -, la procedura sia stata aperta al fine di liquidare i beni del cedente, la procedura si svolga sotto il controllo di un’autorità pubblica competente); non vi, è, dunque, alcun bisogno di verificarne la ricorrenza, come può, invece, accadere, per i casi di amministrazione straordinaria o di concordato preventivo ove può mancare il fine liquidatorio potendo essere orientato, il piano predisposto dal giudice, o alla soddisfazione dei creditori attraverso la continuità aziendale ovvero alla liquidazione del patrimonio».
Più recentemente la Corte di Giustizia ha chiarito che «…è opportuno distinguere l’attività economica globale del cedente dalle singole attività delle diverse entità ricomprese tra i suoi beni da liquidare. Dal tenore letterale dell’art. 5, par. 1, direttiva 2001/23 risulta che l’ambito di applicazione di tale disposizione e, conseguentemente, della deroga da essa prevista non è limitato alle imprese, agli stabilimenti o alle parti di imprese o di stabilimenti la cui attività sia stata definitivamente interrotta prima della cessione o successivamente a quest’ultima. Infatti, tale art. 5, par. 1, … implica che un’impresa o una parte di impresa ancora in attività debba poter essere ceduta beneficiando, al contempo, della deroga prevista in detta disposizione. Così facendo, la direttiva 2001/23 previene il rischio che l’impresa, lo stabilimento o la parte di impresa o di stabilimento di cui trattasi si svaluti prima che il cessionario rilevi, nell’ambito della procedura fallimentare aperta ai fini della liquidazione dei beni del cedente, una parte del patrimonio e/o delle attività del cedente ritenute redditizie. Tale deroga mira dunque a eliminare il grave rischio di un complessivo deterioramento del valore dell’impresa ceduta o delle condizioni di vita e di lavoro della mano d’opera, che sarebbe in contrasto con le finalità del trattato» .
Nello specifico la Corte ha trattato un caso olandese, in cui un accordo di pre-pack, ovverosia un piano di cessione di azienda, predisposto prima dell’apertura del fallimento, per quanto poi attuato dopo, prevedeva il trasferimento soltanto parziale dei lavoratori al cessionario. La CGUE ha significativamente ritenuto, rimeditando il proprio precedente riguardante la medesima disciplina, che la cessione del going concern, cioè di un’azienda in esercizio, non facesse venire meno, in quanto finalizzata al migliore realizzo per i creditori, la natura liquidatoria della procedura e quindi la possibilità di una deroga al transito dell’intera forza lavoro presso il cessionario .
In considerazione di quest’ultima pronuncia della CGUE, si può dunque concludere che la continuazione dell’attività non è di per sé ostativa alla possibilità di qualificare la procedura come liquidativa, laddove la continuazione dell’attività sia stata disposta per perseguire una migliore soddisfazione dell’interesse dei creditori .
2. Gli orientamenti giurisprudenziali divergenti sul “caso Alitalia SAI - ITA”.
La “nuova” giurisprudenza della Corte di Giustizia sembra cominciare ad avere riflessi anche negli orientamenti della giurisprudenza di merito, con particolare riferimento al “caso Alitalia SAI - ITA”, certamente peculiare in quanto relativo ad una procedura di amministrazione straordinaria , ma rilevante per quanto riguarda questo intervento in quanto i Giudici sono portati a riflettere proprio sulla natura liquidatoria della procedura suscettibile di consentire le deroghe di cui all’art. 5 della direttiva.
Secondo il Tribunale di Milano – proprio alla luce della sentenza CGUE 28 aprile 2022, C-237/20, Federatie Nederlandse Vakbeweging c. Heiploeg e in aperta discontinuità con una precedente pronuncia della Corte d’Appello di Milano – «la finalità liquidatoria è compatibile con la cessione di un compendio attivo che prosegua nella nuova realtà imprenditoriale».
In senso contrario, si è invece orientato il Tribunale di Roma , secondo cui «sostiene la società resistente che altra finalità non abbia avuto la procedura … se non quella liquidatoria, …; seppure questo è accaduto, è però altrettanto chiaro che l’attività imprenditoriale non è mai cessata sino al giorno della conclusione del contratto di cessione e che i successivi programmi approvati nell’esecuzione della procedura hanno in ogni modo preservato questa condizione. A questa valutazione si aggiunge l’altro elemento richiamato in ricorso, anche in questo in termini condivisibili; nessun accordo sindacale è stato raggiunto prima della conclusione del contratto di cessione, altra condizione questa necessaria a ritenere possibile una limitazione degli effetti dell’art. 2112 c.c., appunto nei termini fissati nell’accordo. Per queste ragioni quindi, proprio sulla base di quanto previsto dall’art. 47 della legge 29 dicembre 1990 n. 428, non ricorrono in questa vicenda le condizioni per cui si possa ritenere non applicabile l’art. 2112 c.c. poiché nessuna delle due condizioni che renderebbero possibile questo esito si è verificata nella vicenda in questione».
Peraltro, al di là della specifica vicenda Alitalia – eccezionale per molti versi – sembrano effettivamente possibili nuovi contrasti giurisprudenziali con particolare riferimento alle ipotesi e condizioni suscettibili di consentire la deroga alla continuità dei rapporti previsti dall’art. 2112 c.c.: in modo condivisibile è stato, quindi, osservato che «trascurando quanto accaduto, sotto il profilo dell’evoluzione della giurisprudenza interna ed eurounitaria, nel non breve periodo intercorso tra la prima pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e l’entrata in vigore appieno del Codice, sia stata almeno per ora perduta l’occasione di una più ampia riflessione» .
3. Le soluzioni applicative concretamente praticate per favorire la circolazione dell’azienda in crisi.
A fronte di questo possibile nuovo contrasto giurisprudenziale in merito ai limiti di derogabilità dell’art. 2112 c.c. nelle procedure concorsuali, il CCI non interviene sulla legittimità – da valutare evidentemente caso per caso e con effetti che possono in determinate situazioni ricadere anche sul cessionario – delle eventuali, ma non infrequenti, scelte organizzative (per esempio, una riduzione degli organici tramite licenziamento collettivo ai sensi della L. n. 223/1991) compiute e realizzate direttamente dall’imprenditore in crisi o dal curatore prima della cessione dell’a¬zienda o del ramo d’azienda al fine di favorirne la “commerciabilità” (la prassi è nota soprattutto come vendita del “ramo d’azienda pulito” e prevede la stipulazione di clausole relative al “rischio reintegrazione” o “rischio causa” che dovesse ricadere in capo al cessionario a seguito, per esempio, del¬l’impugnazione da parte dei lavoratori di licenziamenti o altri provvedimenti datoriali posti in essere dal cedente appunto prima della cessione).
Del resto, allargando lo sguardo alle prassi quotidiane delle vicende concorsuali, la concreta gestione delle crisi aziendali, nelle sue diverse forme e varianti, dimostra come la questione essenziale sia garantire l’appetibilità dell’azienda (o, più spesso, del ramo d’azienda) e, quindi, la sua cessione ai fini di migliore soddisfazione dei creditori, obiettivo che rimane prevalente nel CCI, per quanto ad esso si affianchi la tutela di interessi diversi tra cui il mantenimento dei posti di lavoro .
Entro questo quadro il potenziale cessionario chiarisce senza mezzi termini: «Io il ramo lo compro…, ma lo voglio pulito, funzionale e operativo …, non voglio avere problemi dopo di cause di lavoro, anche perché non ho bisogno di tutti i lavoratori che c’erano prima». A sua volta, il giudice delegato e il curatore osservano non infrequentemente che: «Il diritto del lavoro pone lacci e lacciuoli alla migliore circolazione dell’azienda».
Di fronte a queste osservazioni è palese che gli operatori pratici delle crisi si pongono un obiettivo molto chiaro: dare certezza di “tenuta” giuridica a complesse operazioni di salvataggio di aziende (o, più spesso, rami d’azienda) e della relativa occupazione, sia pure in misura parziale.
In molti di questi delicati frangenti – in cui per la verità le istanze sociali di tutela nella misura possibile dell’occupazione ricevono normalmente adeguata attenzione – prima si raggiunge il “punto di caduta” economico ed organizzativo e poi gli si costruisce attorno la “veste tecnico-giuridica” più idonea e, per quanto possibile, “solida”.
Ne risultano, nella realtà pratica, soluzioni praeter legem, che vengono spesso adottate con l’avallo del Giudice delegato dopo consultazioni più o meno informali tra organi della procedura, organizzazioni sindacali e potenziali cessionari.
Da rilevare, peraltro, che l’ultimo periodo del citato “nuovo” comma 5 dell’art. 47, L. n. 428/1990 fa «salva la possibilità di accordi individuali, anche in caso di esodo incentivato dal rapporto di lavoro, da sottoscriversi nelle sedi di cui all’arti¬colo 2113, ultimo comma del codice civile».
Tale disposizione, apparentemente superflua, mostra di conoscere come la gestione concreta delle crisi aziendali più gravi, con inevitabile perdita parziale dell’occupazione per “salvare il salvabile”, passi nella pratica attraverso un accordo sindacale che, «per espresso impulso delle OO.SS., si limita ad una semplice “autorizzazione” a favore della curatela per la deroga di cui all’art. 2112 cod. civ., lasciando poi alla concreta gestione delle eccedenze la necessità di accordi individuali stipulati ai sensi degli artt. 410 e ss. c.p.c., da realizzarsi, ovviamente, con la contribuzione economica, ove possibile e ovviamente autorizzata dagli Organi della procedura per la curatela (fallimento-ora liquidazione giudiziale), e di quella “offerta” dal cessionario interessato all’acquisizione del complesso aziendale» .
È così piuttosto frequente appunto il caso degli accordi sindacali che – pur muovendosi nell’ambito di applicazione delle controverse disposizioni di cui all’art. 47, commi 4-bis e 5, della L. n. 428/1990 – fungono essenzialmente da “contratti-cornice” preliminari alla sottoscrizione da parte dei singoli lavoratori di verbali individuali di conciliazione, contenenti la rinuncia all’applicazione dell’art. 2112 c.c. e l’ac¬cettazione delle nuove condizioni economico-normative proposte dal cessionario, così da tacitare ogni eventuale futura pretesa al riguardo.
Tali accordi sono emblematici di come oggi i “gestori della crisi”, da qualunque parte del tavolo si siedano, debbano saper coniugare la conoscenza dei profili teorico-giuridici della disciplina concorsuale e una rilevante esperienza sul campo per (tentare di) risolvere le complesse vicende concrete dei rapporti di lavoro nelle diverse procedure regolate dal CCI.