testo integrale con note e bibliografia
1) Introduzione
La disciplina tributaria dei trasferimenti di compendi di elementi patrimoniali ascrivibili alla nozione di “azienda” è un tema di particolare rilevanza, tanto interpretativa quanto operativa.
Circoscrivendo il campo di indagine delle brevi osservazioni che seguono alle imposte sui redditi e al tema del perimetro applicativo della nozione di “azienda”, ci si propone di tratteggiare la questione della configurabilità dei compendi di beni in termini di “azienda” o di “ramo d’azienda” e di mostrare come la definizione di “azienda” non abbia in Diritto tributario una latitudine definitoria stabile, come testimoniano alcuni recenti provvedimenti di prassi, che saranno oggetto di segnalazione.
Sarà, quindi, analizzato il caso peculiare delle operazioni straordinarie che interessano aziende o rami d’azienda nel cui attivo sono ricomprese delle partecipazioni.
Infine, con riferimento all’individuazione della base imponibile dei compendi oggetto di trasferimento, si farà cenno alla fattispecie patologica del commercio delle c.d. “bare fiscali”.
2) I trattamenti fiscali delle diverse modalità di trasferimento
Nell’ambito della disciplina delle imposte sui redditi, il trasferimento d’azienda è contemplato dalle regole sul reddito d’impresa ed è considerato come un evento realizzativo di ricchezza imponibile.
In particolare, il presupposto di tassazione è collegato ad un evento (i.e. il trasferimento) che concerne un unico bene (i.e. l’azienda). Ne consegue che non rileva ai fini fiscali, nel caso di trasferimento d’azienda, la (potenzialmente diversa) natura dei beni che compongono il compendio aziendale: a prescindere dall’esistenza nell’insieme dei beni ceduti di beni-merce (la cui fuoriuscita dall’impresa genera ricavi), beni-strumentali o beni-meramente patrimoniali (che sono beni tipicamente plusvalenti), il fenomeno realizzativo è collegato ad un evento unitariamente considerato, posto che “[c]oncorrono alla formazione del reddito anche le plusvalenze delle aziende, compreso il valore di avviamento, realizzate unitariamente mediante cessione a titolo oneroso” (art. 86, comma 2, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, “TUIR”) (enfasi aggiunta).
La composizione dell’azienda oggetto di traslazione è, quindi, irrilevante rispetto all’emersione della componente di reddito (i.e. plusvalenza o minusvalenza) generata, che è pari alla differenza fra il corrispettivo conseguito e la somma dei valori fiscalmente riconosciuti delle attività e delle passività che costituiscono l’azienda.
Nel caso di trasferimento dell’azienda mortis causa, la disciplina fiscale esclude il realizzo di plusvalenze. La ratio di questa deroga all’imposizione va ravvisata nella considerazione che il successore (o il donatario) continua l’attività d’impresa del dante causa. Nella prospettiva di continuità dei valori d’impresa, l’azienda è trasferita ai medesimi valori fiscalmente riconosciuti in capo al dante causa (e non ai valori attuali).
Di converso, la disciplina fiscale delle imposte sui redditi rende applicabili le disposizioni relative alle cessioni a titolo oneroso agli atti che “importano costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento” e ai “conferimenti in società” (art. 9, comma 5, del TUIR). Quindi, anche il conferimento d’azienda determina l’emersione di una plusvalenza o di una minusvalenza.
A questa disciplina impositiva si affiancano disposizioni di deroga che, al fine di stimolare riorganizzazioni e razionalizzazioni societarie, escludono la rilevanza fiscale dei conferimenti d’azienda o di rami d’azienda. La ratio di tali disposizioni è la medesima dei trasferimenti mortis causa: nel conferimento permane l’esercizio d’impresa. Il soggetto conferente mantiene l’interesse nell’azienda (o nel suo ramo) oggetto di conferimento e la partecipazione che riceve in cambio (su cui si trasferisce il valore fiscalmente riconosciuto del compendio aziendale conferito) non rileva ai fini reddituali (fino a quando non viene ceduta). La società conferitaria subentra, quindi, nella titolarità di tutte le attività e passività imputabili al compendio.
Al riguardo, l’art. 176, comma 1, del TUIR prescrive che “[i] conferimenti di aziende effettuati tra soggetti residenti nel territorio dello Stato nell’esercizio di imprese commerciali, non costituiscono realizzo di plusvalenze o minusvalenze”. Tale disposizione disattiva, quindi, l’assimilazione alle cessioni onerose dei conferimenti d’azienda effettuati tra soggetti residenti ai fini fiscali nel territorio dello Stato nell’esercizio di imprese commerciali e importa un regime di neutralità fiscale, sia del conferente che della conferitaria, per i maggiori valori emersi nell’ambito dell’operazione.
La predetta disattivazione si applica anche se “il conferente o il conferitario è un soggetto non residente, qualora il conferimento abbia ad oggetto aziende situate nel territorio dello Stato” (art. 176, comma 2, del TUIR). Nella prassi, tale disciplina è ritenuta – condivisibilmente - applicabile anche nei casi in cui entrambi i soggetti (il conferente e il conferitario) non siano residenti ai fini fiscali in Italia.
In sintesi, il trattamento fiscale è diversificato dalla legge in ragione della modalità di trasferimento (i.e. cessione a titolo oneroso; mortis causa, conferimento).
3) Il quantum di “azienda” trasferibile
Oltre all’individuazione del corretto trattamento fiscale del trasferimento d’azienda (in ragione delle diverse modalità di traslazione del compendio patrimoniale), occorre considerare un’ulteriore problematica, che attiene alla dimensione quantitativa dei beni oggetto di trasferimento.
Nei casi di traslazione della totalità dei beni del patrimonio del cedente (compresi i rapporti in essere e l’avviamento), la coincidenza di ciò che forma l’azienda in capo al cedente/dante causa e il complesso produttivo che viene trasferito al cessionario/avente causa non determina particolari criticità.
Diversa è, invece, l’ipotesi di trasferimento parziale dei beni facenti parte del patrimonio del cedente/dante causa, il quale può, ad esempio, decidere di mantenere la proprietà degli immobili strumentali dell’impresa (eventualmente dati in locazione al cessionario).
In tale situazione, ci si deve interrogare sull’esistenza di eventuali limiti alla volontà delle parti di stabilire l’oggetto del trasferimento. L’individuazione di un oggetto non sufficiente a costituire (almeno) un ramo d’azienda è, infatti, suscettiva di escludere la qualificazione del negozio in termini di trasferimento d’azienda e – di conseguenza – di precludere l’applicazione dell’eventuale regime di neutralità fiscale.
Il problema del quantum (necessario) di azienda che deve essere trasferito trova un interessante banco di prova nel caso particolare di conferimento di compendio aziendale formato da vari asset, fra i quali il valore predominante risulti rappresentato da partecipazioni.
Qualora si fosse in presenza di un ramo d’azienda risulterebbe applicabile l’art. 176 del TUIR e l’eventuale successiva cessione della partecipazione rinveniente dal conferimento potrebbe rientrare nel regime di c.d. “participation exemption” (che, in presenza di determinati requisiti, sottrae la plusvalenza emergente dalla cessione della partecipazione dal calcolo del reddito fiscale imponibile). Nel caso contrario, la fattispecie genererebbe una plusvalenza tassabile, poiché, in base all’art. 175 del TUIR, il conferimento delle partecipazioni sarebbe realizzativo. L’eventuale, successiva cessione della partecipazione rinveniente dal conferimento non avrebbe i requisiti richiesti dal regime di participation exemption; il regime di neutralità fiscale potrebbe trovare applicazione esclusivamente con riferimento all’eventuale compendio produttivo trasferito.
Per chiarire se si è in presenza di un ramo d’azienda, occorre muovere dalla definizione di “azienda” ai fini fiscali.
Il concetto di “azienda” non trova una definizione specifica in Diritto tributario. Si pone, dunque, la seguente alternativa interpretativa:
(i) in base alla presunzione di coerenza ed unitarietà dell’ordinamento giuridico, in difetto di una differente enucleazione ad opera del legislatore fiscale, assumere ai fini fiscali il termine ‘azienda’ nel medesimo significato desumibile dall’art. 2555 c.c., ossia di “complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”; oppure
(ii) ascrivere al termine ‘azienda’ un significato tecnico-fiscale specifico, considerato che il Diritto tributario è sì un diritto di “secondo grado” (che mutua, cioè, categorie da altri settori dell’ordinamento), ma che mantiene una sua specificità, talvolta valorizzata anche sul piano della particolarità dei significati giuridici ascrivibili ai termini adottati dal legislatore fiscale.
A parere di chi scrive, la definizione normativa codificata nell’art. 2555 c.c. appare povera di valenza precettiva: il legislatore riconduce chiaramente l’azienda alla classe degli “oggetti di diritto” (escludendo la legittimità di ipotesi interpretative già considerate recessive dalla dottrina civilistica, quali la teoria dell’azienda come “soggetto di diritti” o come “negozio giuridico”), ma non specifica se il “complesso dei beni” aziendali costituisca una cosa composta, una universitas rerum e/o una universitas iuris.
Il concetto di “azienda” ex art. 2555 c.c., inoltre, non sembra cogliere la peculiarità della realtà economica oggetto di trasferimento, che spesso risulta formata da res (e.g., l’avviamento, la clientela, i segreti aziendali, etc.) o da rapporti giuridico-economici che sfuggono alla categoria di “bene”.
Inoltre, se si accede alla nozione civilistica di “azienda”, un trasferimento d’azienda (o di ramo d’azienda) risulta configurabile solamente qualora il contratto “a monte” abbia ad oggetto beni “organizzati dall’imprenditore”, ossia per lo svolgimento in un contesto produttivo (anche solo potenziale) di un’attività d’impresa.
Tale conclusione non appare del tutto coerente con la sistematica della disciplina del reddito d’impresa.
L’art. 55 del TUIR, infatti, individua il reddito d’impresa in tutto ciò che deriva dall’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate nell’art. 2195 c.c. (ossia l’attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi; l’attività intermediaria nella circolazione dei beni; l’attività di trasporto; l’attività bancaria e assicurativa; oltre alle attività ausiliarie delle precedenti) “anche se non organizzate in forma d’impresa” (comma 1). Posto che al rinvio recettizio alla disposizione civilistica si accompagna la puntualizzazione espressa che il requisito organizzativo non rileva ai fini fiscali, la definizione di imprenditore commerciale nell’ambito delle imposte sui redditi ha una latitudine definitoria più ampia di quella civilistica, che qualifica come “imprenditore” “chi esercita professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi” (art. 2082 cc., enfasi aggiunta).
Rileva, inoltre, la nozione di “beni relativi all’impresa” (di cui all’art. 65 del TUIR), posto che le vicende dei soli beni d’impresa sono suscettive di generare i componenti (positivi e negativi) che concorrono a determinare tale categoria di reddito. Ebbene, dall’art. 65 del TUIR si desume che anche beni non utilizzati per lo svolgimento dell’attività d’impresa possono concorrere alla determinazione del reddito d’impresa.
Ne consegue che la disciplina fiscale prescinde dal requisito dell’organizzazione (predicato, invece, dalla nozione civilistica di “azienda”) ai fini della qualificazione del reddito in termini di “reddito d’impresa” e ai fini dell’individuazione dei beni assoggettabili al sistema di regole sul reddito d’impresa.
La valorizzazione di tali esplicite indicazioni normative porta a dilatare significativamente il perimetro entro cui individuare l’azienda (e il ramo d’azienda), ricomprendendovi anche compendi di elementi patrimoniali non necessariamente organizzati nell’ambito di un contesto produttivo ed identificati esclusivamente in occasione del trasferimento.
4) Giurisprudenza e prassi recenti
L’esame della giurisprudenza e prassi recenti testimonia come il tema dell’individuazione di un’azienda (o di un ramo d’azienda) ai fini fiscali abbia tutt’altro che raggiunto una nomofilassi coerente (nelle soluzioni) e stabile (nel tempo).
In primo luogo, si può notare una tendenza della giurisprudenza tributaria a ravvisare l’esistenza di un’azienda (o di un ramo d’azienda) al ricorrere dei presupposti fissati dall’art. 2555 c.c..
In particolare, l’organizzazione, intesa come elemento teleologico che conferisce un carattere unitario all’insieme dei beni destinati alla produzione, è considerata dalla Corte di cassazione un fattore caratterizzante la nozione di “azienda”. Non occorre che l’esercizio dell’impresa sia attuale, essendo sufficiente che il complesso dei beni manifesti una mera attitudine a tale esercizio. Tuttavia, se difetta l’organizzazione di fattori in grado di assicurare una potenzialità produttiva e, quindi, lo svolgimento di una determinata attività d’impresa, la giurisprudenza di legittimità esclude l’applicazione della disciplina in tema di trasferimento d’azienda. In assenza di un’attività unitaria di coesione, impressa dall’imprenditore ai cespiti aziendali, attraverso la loro utilizzazione unitaria, funzionale e coordinata, al fine di realizzare un’attività economica d’impresa, si nega l’esistenza di un’azienda.
L’orientamento maggioritario della giurisprudenza ascrive al trasferimento d’azienda anche quelle operazioni che coinvolgono solo una porzione dei beni di cui era titolare il cedente/dante causa, a condizione che la stessa conservi un’organizzazione autonoma, idonea a consentire di esercitare un’attività di impresa.
Lo stesso “ramo di azienda” viene individuato in tutti gli elementi dotati, all’interno del complesso aziendale, di propria autonomia, in quanto destinati all’esercizio di una diversa attività nel quadro di quelle svolte dall’impresa. In particolare, con riferimento alla cessione d’azienda, la Sezione tributaria della Corte di cassazione ha chiarito che “se non è necessaria la cessione di tutti gli elementi che normalmente costituiscono l’azienda, deve tuttavia appurarsi che nel complesso di quelli ceduti permanga un residuo di organizzazione che ne dimostri l’attitudine all’esercizio dell’impresa, sia pure mediante la successiva integrazione da parte del cessionario” (Cass., 11 maggio 2016, n. 9575; Id., 9 ottobre 2009, n. 21481; Id., 30 gennaio 2007, n. 1913).
Al riguardo, la Corte di Giustizia UE, seppur con riferimento al settore della fiscalità armonizzata, ha affermato che, ai fini della distinzione fra una cessione di azienda e una cessione di singoli beni, “occorre effettuare una valutazione globale delle circostanze di fatto che caratterizzano l’operazione di cui trattasi […]. In tale ambito deve essere accordata particolare importanza alla natura dell’attività economica che si intende proseguire” (Corte giust., 10 novembre 2011, Christel Schriever, causa C-444/10, par. 32. Cfr. anche Corte giust., 27 novembre 2003, Zita Models, causa C-497/01).
Tale principio è stato recepito, ai fini IVA, dalla Corte di cassazione, la quale, agli effetti della qualificazione di un negozio giuridico avente ad oggetto una pluralità di beni quale cessione di una massa di cespiti ovvero di un compendio aziendale afferma che non è rilevante la diretta pertinenza dell’attività dell’azienda ceduta con l’oggetto sociale principale del soggetto cedente (Cass. SS.UU. 5 marzo 2014, n. 5087; Cass., 30 gennaio 2007, n. 1913; Id., 10 ottobre 2008, n. 24913; Id., 9 ottobre 2009, n. 21481; Id., 11 maggio 2016, n. 9575).
Secondo l’Amministrazione finanziaria, il termine ‘azienda’, “va inteso in senso ampio, comprensivo cioè anche delle cessioni di complessi aziendali relativi a singoli rami dell’impresa” (Min. Fin., circ. 19 dicembre 1997, n. 320. In senso conforme, Ag. Entr., ris. 3 aprile 2006, n. 48/E; Id., ris. 13 dicembre 2007, n. 371/E; Id., ris. 31 ottobre 2008, n. 417/E; Id., ris. 10 aprile 2012, n. 33/E; Id., risp. 27 luglio 2023, n. 399; Id., risp. 28 luglio 2023, n. 404). Tale presa di posizione è condivisibile, nell’ascrivere alla nozione in discorso qualsivoglia universitas di beni (materiali, immateriali) suscettibili di consentire l’esercizio dell’attività di impresa.
Più di recente, è stato ribadito che l’azienda può essere definita come “un insieme di beni eterogenei, costituenti un complesso caratterizzato da un’‘unità funzionale’, determinata dal coordinamento realizzato dall’imprenditore tra i diversi elementi patrimoniali e dall’unitaria destinazione dei medesimi a uno specifico fine produttivo” (Ag. Entr., risposta 21 marzo 2019, n. 81).
All’esito dell’indagine sulla volontà delle parti giusta il canone ermeneutico fondamentale ex art. 1362 c.c., il trasferimento costituisce cessione d’azienda laddove l’oggetto specifico sia costituito dal passaggio dei beni intesi in senso unitario e funzionale, suscettibile di vedersi attribuita ex ante l’attitudine all’esercizio dell’impresa.
I fattori essenziali dell’azienda sono, quindi, rintracciati ne:
(i) l’organizzazione dei beni e
(ii) il loro fine per l’esercizio dell’impresa.
In altri termini, quanto trasferito deve essere di per sé un insieme organicamente e autonomamente idoneo a consentire l’inizio o la continuazione di quella determinata attività. Diversamente, il trasferimento ha ad oggetto elementi patrimoniali isolati.
Non è, dunque, il singolo bene a comporre l’azienda, quanto l’asset, ossia il compendio di beni funzionalmente unitari e finalizzati all’esercizio dell’attività di impresa, che – a parere di chi scrive – può ben essere rappresentato da partecipazioni. Le partecipazioni sono, infatti, funzionali all’attività di impresa svolta da particolari imprese come le holding pure, che hanno come unico scopo la detenzione di partecipazioni e che si limitano ad amministrare in senso statico le quote possedute.
L’Amministrazione finanziaria, invece, in un atto di prassi ha affermato che “[i]l corrispettivo percepito per la cessione costituisce un valore riferito all’azienda intesa come unitario complesso di beni da cui origina una plusvalenza che non si può identificare con quella relativa alla cessione delle partecipazioni che ne fanno parte” (Ag. Entr., circ. 13 febbraio 2006, n. 6).
Più di recente è stata, tuttavia, riconosciuta la possibilità di ravvisare un’azienda in un compendio costituito prevalentemente da partecipazioni (Ag. Entr., Principio di diritto 11 maggio 2021, n. 10). Secondo l’Amministrazione finanziaria, se c’è organizzazione di un “unitario complesso di beni” - ivi incluse le partecipazioni (ancorché prevalenti) – si configura un’azienda ai fini fiscali ed è applicabile la disciplina sul trasferimento d’azienda.
Si tratta di una soluzione condivisibile per l’esito (i.e. considerare le partecipazioni incluse nel perimetro del concetto di “azienda”) ma non per la ragione: per capire se c’è “azienda” ai fini fiscali non è decisivo l’elemento dell’organizzazione, ma appare sufficiente valutare se il bene trasferito è funzionale all’esercizio di un’attività di impresa commerciale.
Tale soluzione è stata, peraltro, smentita di recente dalla stessa Amministrazione finanziaria in una (inedita) risposta all’interpello qualificatorio n. 956-2749 del 2021, relativa ad una holding operativa di un gruppo, che intendeva separare le sue due differenti aree di business (i.e. la “divisione Industrial” e la “divisione Service”, di supporto e assistenza gestionale e finanziaria). Secondo l’Amministrazione finanziaria, mentre i beni diversi dalle partecipazioni rappresentano un insieme funzionalmente organizzato alla gestione e all’amministrazione delle attività produttive già esercitate dalla holding, le partecipazioni (possibile oggetto di conferimento) non possono considerarsi un autonomo ramo d’azienda (e non è, pertanto, applicabile rispetto ad esse l’art. 176 del TUIR). Se al trasferimento di partecipazioni non si accompagna il trasferimento di una struttura organizzativa (di beni e personale) che si occupi delle funzioni necessarie per la gestione delle stesse, il trattamento fiscale del conferimento delle partecipazioni dettato dall’art. 175 del TUIR comporta l’emersione di plusvalenze e/o minusvalenze, da determinarsi distintamente per ciascuna partecipazione conferita.
Tale presa di posizione, oltre ad attualizzare un rischio di doppia tassazione nel caso di cessione di aziende o rami d’aziende in cui siano comprese partecipazioni, non è condivisibile, in quanto esclude la possibilità di ravvisare un’azienda in un compendio costituito prevalentemente da partecipazioni ed impone di ascrivere un plusvalore alle singole componenti del compendio aziendale, considerando le partecipazioni come res irrelate ai beni di primo grado cui si riferiscono.
5) Il c.d. “commercio delle bare fiscali”
La rilevanza ai fini delle imposte sui redditi del trasferimento d’azienda, oltre a richiedere l’individuazione del perimetro della nozione di “azienda” (o di ramo d’azienda), comporta anche la (logicamente successiva) questione di determinare il contenuto della base imponibile del complesso di beni unitario oggetto di trasferimento.
Tale problema si pone, in particolare, con riferimento ai compendi aziendali che presentano basi imponibili negative.
Questa situazione, nella sua variante patologica, è conosciuta con l’espressione “commercio delle bare fiscali” e identifica tutte quelle operazioni di acquisizione (fusione o scissione) di aziende con rilevanti perdite fiscali, effettuate prevalentemente a fini elusivi, per consentire a società in utile di abbattere la propria base imponibile, mediante la compensazione inter-soggettiva degli utili (prodotti) con le perdite (della società assorbita).
Per fronteggiare tali situazioni, la disciplina vigente del TUIR contempla disposizioni dal contenuto non omogeneo; segnatamente:
(i) l’art. 84, per i casi di trasferimento d’azienda che importano il trasferimento o l’acquisizione della maggioranza delle partecipazioni aventi diritto di voto nelle assemblee ordinarie del soggetto che riporta le perdite;
(ii) l’art. 118, che disciplina l’utilizzo delle perdite fiscali relative agli esercizi anteriori all’inizio della tassazione di gruppo, per i soggetti che optano per il consolidato fiscale;
(iii) l’art. 172, sulle perdite delle società che partecipano a fusioni, che possono essere portate in diminuzione del reddito della società risultante dalla fusione o incorporante.
L’attuale disciplina individua dei criteri oggettivi per individuare l’esistenza di una “bara fiscale”, che sono dal punto di vista pratico poco soddisfacenti.
Nell’ambito della “Delega al Governo per la riforma fiscale” (legge 9 agosto 2023, n. 111), si prefigura una razionalizzazione dell’attuale disciplina, attraverso la “tendenziale omogeneizzazione dei limiti e delle condizioni di compensazione delle perdite fiscali” (art. 6, comma 1, lett. e), n. 2).
La riforma dovrebbe – in modo più coerente e attraverso l’introduzione di un’unica disposizione di riferimento - non limitare i trasferimenti d’azienda in quanto tali, ma fissare dei limiti alla fruizione del vantaggio fiscale, in ottica anti-elusiva.
Se un trasferimento d’azienda non presenta una ratio di business (ossia una giustificazione commerciale, ulteriore e prevalente rispetto all’interesse fiscale) e un soggetto consegue un vantaggio d’imposta (sotto forma di minor carico fiscale rispetto a quello cui sarebbe altrimenti gravato), le perdite utilizzabili vanno limitate o rese del tutto inutilizzabili.
La soluzione cui sembra tendere il nostro sistema normativo appare, dunque, di compromesso: da un lato, ammettere il trasferimento d’azienda (configurabile ai fini fiscali sulla falsariga della qualificazione civilistica), dall’altro lato, agire sul solo versante fiscale, limitando i benefici d’imposta e rendendo l’eventuale operazione elusiva (seppur civilisticamente valida) “inopponibile” (ossia inefficace relativamente) nei soli confronti dell’Amministrazione finanziaria.