Testo integrale con note e bibliografia
1. Premessa.
Il trasferimento delle imprese in crisi, sotto l’aspetto giuslavorisitico, rappresenta, da sempre, una materia di estrema complessità .
La materia richiede un necessario approfondimento del rapporto tra ordinamenti (europeo e nazionale) e del dialogo tra le Corti (in particolare, tra Corte di giustizia e Cassazione) .
Sul tema, con una certa approssimazione, possiamo distinguere quattro fasi.
Nella prima (che possiamo collocare dall’inizio degli anni settanta alla fine del novecento) si inseriscono quattro episodi: due di carattere normativo e due di carattere giurisprudenziale.
Sul piano normativo si segnala l’esistenza, nell’ordinamento nazionale, di un sotto-sistema (o, secondo diversa impostazione, un microsistema ), che regola il trasferimento delle imprese in crisi a fronte di un “silenzio” sul piano dell’ordinamento dell’Unione europea (nella direttiva 77/187/CEE la materia del trasferimento delle imprese in crisi non era disciplinata).
Sul piano giurisprudenziale la situazione è, in un certo senso, capovolta.
La sentenza di riferimento è certamente la sentenza Spano della CGUE che, sulla scia di un orientamento elaborato dalla stessa Corte, ha affermato la non conformità del comma 5 dell’art. 47 della l. n. 428/1990 alla direttiva 77/187.
Sul piano interno, viceversa, si segnala la sentenza della Cassazione n. 4073 del 2001 che, negando l’efficacia diretta della direttiva e la praticabilità della c.d. “interpretazione conforme” alla norma UE ridimensiona la portata della sentenza della CGUE.
Nella seconda fase (che possiamo collocare tra la fine degli anni ’90 e la prima decade del nuovo secolo) si assiste ad una sorta di dialogo tra Legislatori e Corti.
Nell’art. 5 della direttiva 2001/23/CE (che ha riprodotto, senza modifiche, l’art. 4-bis della direttiva 98/50) il Legislatore dell’ordinamento Ue rompe il suo silenzio e prevede un’articolata disciplina volta al salvataggio delle imprese in difficoltà economica.
Otto anni dopo, con la sentenza dell’11 giugno 2009, C-561/07 , interviene la Corte di giustizia affermando che con i commi 5 e 6 dell’art. 47 legge n. 428/1990 “la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della direttiva”.
La risposta del Legislatore italiano, al fine di dare attuazione alla sentenza della Corte di giustizia, è tempestiva con l’art. 19-quater del d. l. n. 135/2009, convertito in legge n. 166/2009.
Nella terza fase (che dal 2009 arriva ai giorni nostri) il dibattito, dottrinale e giurisprudenziale, si concentra sull’analisi della conformità o meno dell’art. 4-bis della legge 428/90 con la direttiva 2001/23.
Il dibattito su questa normativa è complesso ed articolato.
La Cassazione, con sentenze di contenuto analogo, ha chiarito, di recente, alcuni aspetti particolarmente complessi della normativa oggi in vigore con una motivazione che fornisce preziosi indicazioni anche sulla normativa che, a partire dall’anno prossimo, regolerà la materia.
Il riferimento è, ovviamente, all’art. 368, comma 4, lett. b), del D.lgs 12 gennaio 2019, n. 14 che, a partire dal 1 settembre 2021, regolerà la materia in esame.
Quella che possiamo definire la quarta fase della regolamentazione dell’istituto.
Ma conviene procedere con ordine, seguendo (e commentando) i diversi passaggi argomentativi contenuti nell’orientamento della Cassazione più recente.
2.L’art. 4-bis della legge 428/90. L’interpretazione esegetica e logico-sistematica della Corte.
La materia del trasferimento d’impresa è oggi regolata dall’art. 47, comma 4-bis, introdotto dall’art. 19-quater del d.l. 25 settembre 2009, n. 135 (conv. in legge n. 166/2009) che, dopo il 4 comma, prevede che: “Nel caso in cui sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento, anche parziale, dell’occupazione, l’art. 2112 del codice civile trova applicazione nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo medesimo qualora il trasferimento riguardi aziende: a) delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale, ai sensi dell’art. 2, comma 5, lett. c), della l. n. 675/77; b) per le quali sia stata disposta l’amministrazione straordinaria, ai sensi del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell’attività”.
Il comma 4-bis è stato inserito “al fine di dare esecuzione alla sentenza di condanna emessa dalla Corte di giustizia delle Comunità europee l’11 giugno 2009 nella causa C-561/07” su cui torneremo.
Il comma (4-bis), come si legge nelle motivazioni delle sentenze esaminate, appare destinato alle procedure non liquidative “a differenza del comma 5 che invece presuppone la cessazione dell’attività d’impresa o, comunque, la sua non continuazione, in simmetria con le deroghe consentite rispettivamente dal paragrafo 2 e dal paragrafo 1 dell’art. 5 della direttiva 2001/23/CE”.
Assume centralità dirimente, precisa la Corte, “l’espressione di cui al comma 4bis, secondo cui trova applicazione l’art. 2112 c.c.; diametralmente opposta a quella contenuta nel comma 5, secondo cui non trova applicazione l’art. 2112 c.c.”
Diversità di casi disciplinati dai due commi che non consente di attribuire all’inciso contenuto ad entrambi “nel caso in cui sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento anche parziale dell’occupazione” la medesima valenza semantica.
In sostanza, “non si può estrapolare l’inciso “anche parziale” per accreditare l’ipotesi che l’accordo sindacale possa disporre, in senso limitativo, dei trasferimenti dei lavoratori dell’impresa cedente, ove si tratti di azienda rientrante nell’ipotesi di cui al comma 4-bis”.
In sostanza, l’accordo di cui all’art. 4-bis deve riguardare le “condizioni di lavoro” . ma non la continuità dei rapporti di lavoro con la cessionaria in base al criterio logico-sistematico e alla ratio dell’intervento legislativo che intende dare attuazione alla sentenza della Corte di giustizia C-561/07.
In presenza di “espressioni generiche” osserva, correttamente, la Corte “deve essere privilegiato il significato conforme al diritto dell’Unione e alla interpretazione che dello stesso fornisce la CGUE”.
E’ questo il passaggio più importante nell’economia delle sentenze che và adeguatamente approfondito.
3. Sull’interpretazione conforme all’ordinamento dell’UE.
L’interpretazione conforme al diritto dell’Unione europea costituisce uno dei pilastri su cui poggia la costruzione dell’ordinamento europeo .
L’obbligo dell’interpretazione conforme trova fondamento nel principio di leale collaborazione sancito dall’art. 4, par. 3, TUE secondo il quale “gli Stati membri adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione” e “si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione” .
La Corte di giustizia, nel tempo, ha elaborato una serie di spunti metodici per il giudice nazionale che deve effettuare la c.d. interpretazione conforme.
Una summa di tale metodologia si trova nella sentenza Dominguez .
Il giudice deve fare tutto ciò che rientra nella sua competenza, prendendo in considerazione tutte le norme del diritto nazionale mediante tutti i metodi di interpretazione ad esso riconosciuti, per conseguire il risultato perseguito dalla direttiva .
Pertanto, il giudice nazionale deve utilizzare l’intero spazio valutativo ad esso concesso dalla norma interna (specie in presenza di clausole generali o concetti giuridici indefiniti) in favore del diritto comunitario .
La Cassazione, nella sentenza in commento, ha seguito le indicazioni della Corte di giustizia facendo leva sulla ratio della direttiva 2001/23 e sulla sentenza della CGUE C-561/07.
Esaminiamo, partitamente, i due richiami.
4. La direttiva 2001/23/CE .
La direttiva 2001/23, come la precedente, è diretta a proteggere i lavoratori, promuovendo (senza realizzare un’armonizzazione completa ) il ravvicinamento delle legislazioni nazionali al fine di assicurare il mantenimento dei loro diritti in caso di trasferimento d’impresa.
La regola generale è delineata negli artt. 3 e 4 della direttiva.
Il cessionario è vincolato ai diritti e agli obblighi che risultano da un contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro esistente tra il lavoratore e il cedente alla data del trasferimento dell’impresa.
La “trasmissione” “comprende tutti i diritti di questi ultimi laddove essi non ricadano in una delle eccezioni espressamente previste dalla direttiva” .
Nella stessa prospettiva di mantenimento dei diritti dei lavoratori, la direttiva 2001/23 prevede, all’art. 3, paragrafo 3, che, dopo il trasferimento, il cessionario mantenga le condizioni di lavoro convenute mediante contratto collettivo nei termini previsti da quest’ultimo per il cedente, fino alla risoluzione o alla scadenza del contratto collettivo o all’applicazione di un altro contratto collettivo .
L’art. 4, paragrafo 1, della direttiva stabilisce che il trasferimento di un’impresa non è di per sé motivo di licenziamento da parte del cedente o del cessionario.
Siamo in presenza di norme imperative , nel senso che non è consentito agli Stati membri derogarvi in senso sfavorevole ai lavoratori, fatte salve le eccezioni previste dalla direttiva medesima.
La direttiva prevede tre deroghe.
La prima è contenuta nel paragrafo 1 dell’art. 5.
Esso prevede, in questo contesto, che gli artt. 3 e 4 non si applicano, in linea di principio (“A meno che gli Stati dispongano diversamente”), al trasferimento di imprese nel caso in cui il cedente sia oggetto di una procedura fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente stesso e che si svolgono sotto il controllo di un’autorità pubblica competente.
Due sono i presupposti per l’applicazione della norma.
Il primo è l’obiettivo perseguito nel procedimento.
E invero, l’esclusione della regola generale si giustifica unicamente se il procedimento in questione, in considerazione dei suoi obiettivi e delle sue modalità, miri alla liquidazione dei beni dell’impresa.
Se, invece, il procedimento mira alla prosecuzione della gestione dell’impresa la deroga non opera.
L’affermazione si desume dall’esame delle sentenze Abels , D’Urso , Spano e Dethier Equipement .
Il secondo requisito è che il procedimento si svolga “sotto il controllo di un’autorità pubblica competente”.
Precisa la Corte di giustizia , in una pronuncia in tema di pre-pack , che deve trattarsi di un controllo “penetrante ”.
La seconda deroga è contenuta nel paragrafo 2 dell’art. 5.
Come si è detto, la direttiva autorizza gli Stati membri ad applicare gli artt. 3 e 4 ai trasferimenti di un’impresa nell’ambito di una procedura di insolvenza aperta nei confronti del cedente.
Qualora uno Stato membro si avvalga di tale facoltà, il paragrafo 2 dello stesso art. 5 prevede:
- alla lettera a) che esso possa derogare all’art. 3, paragrafo 1, della direttiva nel senso che non vengono trasferiti al cessionario gli oneri risultanti al cedente, alla data del trasferimento o all’apertura della procedura di insolvenza, da contratti o da rapporti di lavoro, a condizione tuttavia che viga in tale Stato membro una protezione almeno equivalente a quella istituita dalla direttiva 80/987, la quale impone un meccanismo di garanzia del pagamento dei crediti vantati dai lavoratori nei confronti del datore di lavoro in stato di insolvenza derivanti da contratti o da rapporti di lavoro conclusi col medesimo.
- alla lettera b) che “il cessionario, il cedente o la persona o le persone che esercitano le funzioni del cedente, da un lato, e i rappresentanti dei lavoratori, dall’altro, possano convenire, nella misura in cui la legislazione o le prassi in vigore lo consentano, modifiche delle condizioni di lavoro dei lavoratori intese a salvaguardare le opportunità occupazionali garantendo la sopravvivenza dell’impresa, dello stabilimento o di parti di imprese o di stabilimenti” .
La terza deroga è prevista nel paragrafo 3 dell’art. 5.
“Uno Stato membro ha facoltà di applicare il paragrafo 2, lett. b), ai trasferimenti in cui il cedente sia in una situazione di grave crisi economica quale definita dal diritto nazionale, purchè tale situazione sia dichiarata da un’autorità pubblica competente e sia aperta al controllo giudiziario, a condizione che tali disposizioni fossero già vigenti nel diritto nazionale il 17 luglio 1998”.
La facoltà di applicare il paragrafo 2, lett. b) della direttiva (che prevede, con accordo con i rappresentanti dei lavoratori, di “modificare le condizioni di lavoro dei lavoratori”) è subordinata a tre condizioni.
a) La prima, di carattere causale, è che il cedente “sia in una situazione di grave crisi economica, purchè tale situazione sia dichiarata da una un’autorità pubblica competente”.
Tale ipotesi, come evidenziato in dottrina , è ravvisabile in alcune ipotesi di CIGS.
Ma si tratta, come rilevato dalla stessa Corte di giustizia , di ipotesi eccezionali nell’ambito della disciplina nazionale.
b) La seconda condizione, di carattere procedurale, è che la procedura “sia aperta al controllo giudiziario”.
Da una lettura sistematica dell’art. 3 della direttiva discende che tale controllo deve essere necessariamente giudiziario (non basta un generico controllo di “un’autorità pubblica competente”, come nell’ipotesi delineata nel paragrafo 1 dell’art. 3).
Non basta.
Il controllo deve essere “costante” e non circoscritto ad alcune fasi del procedimento .
Requisito che non appare ravvisabile nell’ipotesi di CIGS .
c) La terza condizione, di carattere temporale, è “che tali disposizioni fossero già vigenti nel diritto nazionale il 17 luglio 1998”.
Requisito certamente sussistente nella legislazione italiana .
Le deroghe discostandosi dall’obiettivo principale della direttiva “devono necessariamente essere oggetto di interpretazione restrittiva” .
5. La sentenza C-561/07 della Corte di giustizia.
La Corte di giustizia, con la sentenza C-561/07 ha affermato che, con i commi 5 e 6 della legge n. 428/90, la “Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della direttiva” (2001/23).
Alcuni passaggi motivazionali della sentenza sono illuminanti per analizzare la risposta del legislatore italiano (del 2009) e la sua conformità alla direttiva del 2001/23.
Per quanto riguarda l’argomento della Repubblica italiana secondo cui le ragioni che giustificano il licenziamento in caso di trasferimento indicate dall’art. 4, n. 1, della direttiva 2001/23 risulterebbero soddisfatte in casi specifici di crisi aziendale ai sensi dell’art. 2, comma 5, lett. c) della legge n. 675/77 la risposta della Corte è laconica “il fatto che un’impresa sia dichiarata in situazioni di crisi ai sensi della legge n. 675/77 non può implicare necessariamente e sistematicamente variazioni sul piano dell’occupazione, ai sensi dell’art. 4, n. 1, della direttiva 2001/23” (punto 36).
Per quanto concerne l’argomento della Repubblica italiana basato sull’asserita conformità dell’art. 47, comma 5, della legge n. 428/90 con l’art. 5, n. 3, della direttiva 2001/23 la Corte rileva che, “ammesso” che la situazione tipizzata dal legislatore nazionale rientri nel raggio di azione della direttiva, la disposizione della direttiva (art. 5, n.3) “autorizza gli Stati membri a prevedere che le condizioni di lavoro possano essere modificate per salvaguardare le opportunità occupazionali garantendo la sopravvivenza dell’impresa, senza tuttavia privare i lavoratori dei diritti loro garantiti dagli artt. 3 e 4 della direttiva 2001/23” .
“Orbene, è pacifico che l’art. 47, comma 5, della legge n. 428/90 priva puramente e semplicemente i lavoratori, in caso di trasferimento di un’impresa di cui sia stato accertato lo stato di crisi, delle garanzie previste dagli artt. 3 e 4 della direttiva 2001/23 e non si limita, di conseguenza, ad una modifica delle condizioni di lavoro quale è autorizzata dall’art. 5, n. 3, della direttiva 2001/23”. (punti 44-45).
La Corte, infine, ha cura di ribadire (riprendendo la sentenza Spano) che “non si può ritenere che una disposizione quale l’art. 47, comma 5, della l. n. 428/90 che ha l’effetto di privare i lavoratori di un’impresa delle garanzie loro offerte dalla direttiva 2001/23, costituisca una disposizione più favorevole per i lavoratori ai sensi dell’art. 8 della direttiva stessa” (punto 48).
Sulla base di queste coordinate ermeneutiche, la corte di cassazione ritiene, correttamente, che il comma (4-bis) “appare destinato alle procedure non liquidative a differenza del comma 5 che invece presuppone la cessazione dell’attività d’impresa o, comunque, la sua non continuazione, in simmetria con le deroghe consentite rispettivamente dal paragrafo 2 e dal paragrafo 1 dell’art. 5 della direttiva 2001/23/CE”.
Interpretazione che, peraltro, trova conforto in una successiva sentenza della Corte di giustizia: la C-509/17.
6. La sentenza della CGUE C-509/17 del 16 maggio 2019.
Ricordiamo, in sintesi, i fatti di causa.
La Corte del lavoro di Anversa (Belgio) ha sottoposto alla Corte di giustizia una questione attinente alla legittimità di un licenziamento avvenuto nell’ambito di una “procedura di riorganizzazione giudiziale mediante cessione soggetta a controllo giudiziale”.
La società Echo avviava tale procedura il 23 aprile 2012. Il Tribunale del commercio di Hasselt, in data 19 febbraio 2013, accoglieva la domanda della Echo (volta a modificare il trasferimento consensuale in un trasferimento soggetto a controllo giudiziale) e, il 22 aprile 2013, autorizzava i commissari giudiziali a procedere al trasferimento dei beni mobili e immobili alla Prefaco.
Il rapporto di lavoro della sig.ra Plessers, dipendente della Echo dall’agosto del 1992, veniva risolto in data 24 aprile 2013 e la stessa non veniva “riassunta” dalla Prefaco.
La Plessers adiva la Corte del lavoro di Anversa (che rigettava il ricorso). La Corte di appello sospendeva il procedimento e chiedeva alla Corte di giustizia se la normativa belga (l’art. 61, par. 4 della WCO) fosse compatibile “con la direttiva 2001/23, segnatamente con i suoi articoli 3 e 5”
La Corte di giustizia, per rispondere al quesito, ha approfondito due questioni.
In primo luogo, ha accertato se la “procedura di riorganizzazione giudiziale mediante cessione soggetta a controllo giudiziale” rientrasse, o meno, nel raggio di azione dell’eccezione prevista all’art. 5, paragrafo 1, della direttiva 2001/23/CE.
In secondo luogo, ha esaminato la conformità della legislazione belga (che attribuisce al cessionario la facoltà di scegliere i lavoratori che intende riassumere) con gli artt. 3 e 4 della direttiva 2001/23.
In questa sede rileva, ovviamente, solo la prima questione.
La Corte, nella sentenza in esame, ha escluso che la procedura di riorganizzazione giudiziale rientrasse nell’ipotesi derogatoria.
Tre sono le ragioni di tale affermazione.
L’esistenza di una procedura fallimentare (o di insolvenza analoga) veniva esclusa, in realtà, dalle stesse parti.
La procedura di riorganizzazione giudiziale mediante cessione soggetta a controllo giudiziario veniva “utilizzata al fine di conservare in tutto o in parte la Echo e le sue attività” (punto 45).
Il controllo del commissario nell’ambito della procedura di riorganizzazione giudiziale era più ristretto rispetto a quello esercitato “dal commissario nell’ambito di una procedura fallimentare” (punto 47).
Nella sentenza (punto 40) si fà riferimento sia al fatto che “il cedente sia oggetto di una procedura fallimentare (o di una procedura di insolvenza analoga)”, che alla circostanza “che questa procedura sia stata aperta al fine di liquidare i beni del cedente”.
Elementi che, riprendendo il dettato del 1 paragrafo dell’art. 5, ribadiscono, in sostanza, la necessaria presenza di una procedura di tipo liquidatorio.
Conclusioni che, in sostanza, consolidano, ulteriormente, quanto poteva già desumersi dalla sentenza C- -561/07 della Corte di giustizia .
7. Sul mancato rinvio pregiudiziale alla CGUE. La sentenza CILFIT.
La Corte, dal punto di vista processuale, si è, poi, posta il problema del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia.
Il giudice di legittimità, a differenza del giudice di merito, ha, infatti, l’obbligo del rinvio alla CGUE, salve le ipotesi, eccezionali, elaborate nella sentenza CILFIT del 1982 .
La sentenza chiarì che il giudice nazionale di ultima istanza può astenersi dal sottoporre la questione pregiudiziale alla Corte di giustizia quando la corretta applicazione del diritto dell’UE si impone “con tale evidenza da non lasciare adito ad alcun ragionevole dubbio”(c.d. teoria dell’atto chiaro).
Il principio veniva enunciato in termini restrittivi (non deve esistere “alcun ragionevole dubbio”) e circondato da ulteriori cautele, attraverso l’affermazione che il giudice nazionale deve “maturare il convincimento che la stessa evidenza si imporrebbe anche ai giudici degli Stati membri e alla Corte di giustizia” e rammentando che l’interpretazione delle norme Ue comporta un raffronto tra le varie versioni linguistiche, la considerazione del suo contesto e del suo stato di evoluzione (punti nn. 16-20 della sentenza CILFIT).
La Corte, però, ha ritenuto che non fosse necessario, nel caso di specie, procedere al rinvio pregiudiziale perché “l’interpretazione della norma comunitaria era autoevidente o, comunque, il senso della stessa era già stato chiarito da precedenti pronunce della Corte di giustizia”.
8. I riflessi della sentenza sull’art. 368, comma 4, del D.lgs n.14/2019.
La Corte, da ultimo, fà riferimento all’art. 368, comma 4, lett. b) che entrerà in vigore il 1 settembre del 2021.
Nei casi di procedure non liquidatorie, specificamente di ammissione a procedure concordatarie in regime di continuità indiretta, di omologazione di accordi di ristrutturazioni di debiti e di amministrazione straordinaria, il nuovo testo del comma 4bis dell’art. 47 della l. n. 428/90 (come sostituito all’art. 368, comma 4, lettera b) del d.lgs 14/19) stabilisce che il raggiungimento di un accordo “con finalità di salvaguardia dell’occupazione” comporta “fermo il trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro”, l’applicazione dell’art. 2112 c.c..
La scelta del legislatore italiano appare in linea con le sentenze della CGUE richiamate dalla Corte di Cassazione confermando che le regole della direttiva 2001/23 possono essere derogate solo qualora il trasferimento dell’impresa si sia verificato nell’ambito di un procedimento mirante alla liquidazione dei beni del debitore per soddisfare collettivamente i creditori.
In sostanza, il legislatore italiano, eliminando l’inciso contenuto nell’attuale normativa (“mantenimento anche parziale dell’occupazione”) e ribadendo come “fermo il trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro” ha così “più esplicitamente inteso recepire, meglio conformando il futuro dettato normativo, l’unica lettura del comma 4-bis che questa Corte ritiene già percorribile in via ermeneutica anche per il passato”.