TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Premessa

È noto come per l’impresa che venga a trovarsi in stato di crisi o che abbia già varcato la soglia dell’insolvenza, la cessione del complesso aziendale o di una parte di esso costituisca uno tra gli strumenti principali per la soddisfazione, almeno parziale, del debito accumulato dalla massa fallimentare. Mezzo che può rivelarsi altresì utile a favorire la conservazione dell’occupazione dei lavoratori che vi sono impegnati, laddove l’imprenditore cessionario sia intenzionato a proseguire l’attività già svolta dal cedente tramite quell’apparato.
La capacità del trasferimento d’azienda, laddove ancora possibile, di favorire la contestuale soddisfazione di tali interessi, non necessariamente coincidenti, spiega il ruolo centrale che ad esso è attribuito all’interno del Codice della crisi e dell’insolvenza (d’ora in poi CCII) .
In più punti della nuova disciplina delle procedure concorsuali , la cessione del complesso aziendale o di una parte di esso è infatti prevista come la strada da seguire in via preferenziale rispetto all’alternativa costituita dallo smembramento dello stesso attraverso la liquidazione dei suoi singoli componenti. A conferma di ciò, per la sua connessione con l’argomento oggetto di queste note, ci si può limitare qui a ricordare che, in materia di liquidazione giudiziale, il curatore non può procedere al licenziamento dei dipendenti impiegati nell’impresa decotta laddove sia possibile il trasferimento dell’azienda o di un suo ramo (art. 189, comma 3, CCII).
Nella pratica della gestione delle situazioni di crisi e di insolvenza, l’individuazione di un imprenditore interessato a rilevare l’azienda non è però molto spesso semplice ed è normalmente condizionata dalla possibilità di “alleggerire” i costi della struttura al fine di accrescerne l’appetibilità, certamente compromessa dall’esito a cui ha portato la gestione imprenditoriale del debitore sottoposto ad una delle procedure concorsuali previste dall’ordinamento.
E tra i costi da “alleggerire” potrebbe esservi quello del lavoro. È infatti usuale che la disponibilità ad acquisire l’azienda venga condizionata, dal potenziale cessionario, al ridimensionamento dell’organico .

2. I limiti alla possibilità di derogare all’art. 2112 c.c. nelle procedure concorsuali: i termini del problema.

In considerazione di ciò ed allo scopo di favorire la circolazione del complesso aziendale al fine di soddisfare gli interessi sopra ricordati, tanto la disciplina europea quanto quella nazionale , da tempo risalente, espressamente ammettono la derogabilità del principale effetto dettato dalla direttiva 2001/23 e dall’art. 2112 c.c.: quello della continuità dei rapporti di lavoro alle dipendenze del cessionario .
In particolare, a mente dell’art. 5 della direttiva 2001/23, la possibilità di escludere l’operatività dell’effetto della continuità dei rapporti di lavoro e, dunque, la possibilità di limitare in sede di cessione il gruppo dei lavoratori destinati a transitare alle dipendenze del nuovo imprenditore, viene fatta dipendere dal fatto che il cedente sia sottoposto ad “una procedura fallimentare o una procedura di insolvenza analoga aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente stesso”.
Detto altrimenti, solo laddove la procedura abbia finalità liquidativa, è consentita la deroga all’effetto della continuità dei rapporti di lavoro, deroga invece impossibile nel caso in cui la procedura sia priva di tale caratteristica.
Considerate le rilevanti differenze che l’ordinamento collega a tale distinzione, diventa cruciale capire cosa debba intendersi in concreto per “procedure con finalità liquidativa”. Espressione che si presta a letture diverse, come è dimostrato dalle numerose modifiche subite dalla legge italiana di recepimento, da ultimo modificata anche dal CCII. Disciplina che nelle versioni precedenti è stata anche oggetto di procedure di infrazioni comunitarie, conclusesi, in un caso, con la condanna dell’Italia .
Senza poter ripercorrere tale evoluzione, in questa sede si vuole provare a rispondere, in estrema sintesi, alle seguenti domande: a quali condizioni, ai sensi della disciplina europea, può dirsi configurabile una procedura con finalità liquidativa?; la disciplina italiana riformata sul punto CCII appare conforme alle regole europee?

3. Procedure liquidative vs. procedure conservative

La distinzione tra procedure liquidative e procedure prive di tale qualità - e quindi conservative, perché volte a conservare il compendio aziendale per la prosecuzione dell’attività da parte del debitore o di terzi che acquistino gli assets – è tratteggiata in maniera apparentemente netta nella giurisprudenza della Corte di Giustizia.
Afferma la CGUE che “per quanto riguarda le differenze tra questi due tipi di procedura [...], l’una mira al proseguimento dell’attività, mentre l’altra mira a salvaguardare l’operatività dell’impresa o delle sue unità economicamente sostenibili. Al contrario, una procedura intesa alla liquidazione dei beni mira a massimizzare la soddisfazione collettiva dei creditori. Sebbene non sia escluso che possa esistere una certa sovrapposizione tra i due obiettivi perseguiti da una data procedura, l’obiettivo principale di una procedura mirante al proseguimento dell’attività dell’impresa rimane comunque la salvaguardia dell’impresa interessata” .
Si tratta di un’affermazione che suscita numerose perplessità , poiché sembra attribuire rilevanza dirimente al semplice fatto che vi sia una prosecuzione dell’attività di impresa, senza tenere in adeguata considerazione la circostanza che la prosecuzione dell’attività può essere funzionale a preservare il valore dell’apparato oggetto di trasferimento allo scopo di massimizzare il ricavato della cessione, nell’interesse della migliore soddisfazione dei creditori. La prosecuzione dell’attività in tali ipotesi non è autorizzata con l’obiettivo di salvaguardare l’attività, quanto piuttosto con la finalità di realizzare un valore più alto in sede di liquidazione degli assets.
È proprio con riferimento a tale fattispecie, molto ricorrente nella pratica, che si pongono i maggiori dubbi interpretativi circa la definizione dei limiti entro i quali sia possibile derogare agli effetti della direttiva.
La CGUE sembra essersi resa conto di tale problematica nella sentenza più recente sull’argomento, nella quale ha ravvisato la necessità di “distinguere l’attività economica globale del cedente dalle singole attività delle diverse entità ricomprese tra i suoi beni da liquidare” . In questo modo, opportunamente, la CGUE ammette la possibilità di qualificare la procedura come liquidativa, anche nel caso non vi sia una cessazione dell’attività, ma anzi una prosecuzione di quelle più redditizie.
Tale conclusione muove dalla importante constatazione che, a diversamente ritenere, si correrebbe il rischio di svalutare una parte del patrimonio e/o delle attività del cedente ancora redditizie, prima che il cessionario le rilevi. Sicché, la possibilità di consentire la deroga alla continuità dei rapporti di lavoro in caso di cessione di imprese insolventi, in cui vi sia una parziale prosecuzione dell’attività, va nell’interesse stesso dell’occupazione e dei lavoratori, trattandosi di una regola finalizzata a preservare il valore dell’impresa.
Da quanto appena osservato si può trarre la conclusione che non è possibile escludere a priori la natura liquidativa della procedura ogni qual volta venga disposta una prosecuzione di parte o di tutta l’attività produttiva, dovendosi valutare in concreto l’obiettivo perseguito dal debitore e dagli organi della procedura.
Si può dunque concludere che la continuazione dell’attività non è di per sé ostativa alla possibilità di qualificare la procedura come liquidativa, laddove la continuazione dell’attività sia stata disposta per perseguire una migliore soddisfazione dell’interesse dei creditori.

4. L’art. 47, commi 4-bis e 5, l. 428/1990.

Spostando l’attenzione sull’ordinamento italiano, la disciplina di riferimento è costituita dall’art. 47 l. 428/1990, il quale regola i limiti della derogabilità agli effetti previsti dall’art. 2112 c.c.
Con riferimento a tale profilo, la disposizione in parola è articolata in due principali blocchi normativi.
Il primo di tali blocchi coincide con il nuovo comma 4-bis, il quale esclude la possibilità di derogare all’effetto della continuità dei rapporti di lavoro previsto dall’art. 2112 c.c., ma riconosce alla contrattazione collettiva la facoltà di dettare termini e limitazioni alle condizioni di lavoro già godute dal lavoratore alle dipendenze dell’imprenditore cedente in crisi. L’ambito di applicazione di tale previsione coincide con quello delle procedure che, secondo la classificazione precisata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, possono essere incluse nel novero delle procedure finalizzate alla continuazione dell’attività .
Il secondo blocco normativo, che maggiormente ci interessa in questa sede, è quello dedicato alle procedure concorsuali di carattere liquidatorio, nell’ambito delle quali l’autonomia collettiva è dotata di poteri negoziali molto più significativi.
Al riguardo, il comma 5 dell’art. 47, l. n. 428/1990 prevede che “qualora il trasferimento riguardi imprese nei confronti delle quali vi sia stata apertura della liquidazione giudiziale o di concordato preventivo liquidatorio, ovvero emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa, nel caso in cui la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata, i rapporti di lavoro continuano con il cessionario. Tuttavia, in tali ipotesi, nel corso delle consultazioni di cui ai precedenti commi, possono comunque stipularsi, con finalità di salvaguardia dell’occupazione, contratti collettivi ai sensi dell’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, in deroga all’articolo 2112, commi 1, 3 e 4, del codice civile [...]”.
La formulazione di tale disposizione appare in linea con il dettato della direttiva 2001/23/CE, circoscrivendo la possibilità della contrattazione collettiva di derogare all’effetto della continuità dei rapporti di lavoro alle sole procedure concorsuali di carattere liquidatorio.
La formulazione della disposizione si porta però dietro un dubbio interpretativo, che caratterizzava anche la formulazione del comma in questione precedente alla riforma realizzata dal CCII. In particolare, non è chiaro se l’autonomia collettiva possa derogare all’effetto della continuità dei rapporti di lavoro anche nel caso in cui, nell’ambito della liquidazione giudiziale, del concordato preventivo liquidatorio o della liquidazione coatta amministrativa, sia stata disposta la continuazione dell’attività o comunque questa non sia cessata.
Il dubbio è ingenerato dall’inciso posto al termine dell’elencazione delle tre tipologie di procedure e si collega alla distinzione elaborata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia tra procedure liquidative e non liquidative e può essere così enunciato: nel caso in cui sia disposta la prosecuzione dell’attività o questa continui di fatto, la procedura concorsuale deve in ogni caso essere considerata finalizzata alla continuazione dell’attività e non già destinata alla liquidazione dei beni?
A questa domanda ha di recente fornito una risposta convincente e pienamente condivisibile la Suprema Corte, affermando che non vi può essere dubbio sulla natura liquidatoria delle procedure fallimentari (i.e., nell’architettura del CCII, della liquidazione giudiziale), poiché sono “espressamente richiamate nel paragrafo I del comma 5 della Direttiva 2001/23/CE e soddisfano ontologicamente tutti e tre i requisiti ribaditi dalla giurisprudenza comunitaria come innanzi illustrati (ossia l’impresa cedente sia oggetto di una procedura fallimentare — o di una procedura d’insolvenza analoga –, la procedura sia stata aperta al fine di liquidare i beni del cedente, la procedura si svolga sotto il controllo di un’autorità pubblica competente); non vi, è, dunque, alcun bisogno di verificarne la ricorrenza, come può, invece, accadere per i casi di amministrazione straordinaria o di concordato preventivo ove può mancare il fine liquidatorio potendo essere orientato, il piano predisposto dal giudice, o alla soddisfazione dei creditori attraverso la continuità aziendale ovvero alla liquidazione del patrimonio” .
Ne consegue che “il comma 5 dell’art. 47 l. 428/1990, interpretato conformemente alla norma comunitaria di cui reca attuazione, nonché alla giurisprudenza della Corte di giustizia europea, consente pianamente di includere tutte le procedure fallimentari nell’ambito delle imprese che possono disapplicare l’art. 2112 c.c.”.
Secondo questa interpretazione il requisito della cessazione dell’attività di impresa, a cui pure fa riferimento il nuovo testo del comma 5 dell’art. 47 legge citata, varrebbe ad escludere la natura liquidativa esclusivamente per la liquidazione coatta amministrativa.
Tale conclusione appare coerente anche con la formulazione del comma 4-bis dell’art. 47 suindicato, che non contempla l’ipotesi della liquidazione giudiziale con prosecuzione dell’attività. Ed invero, se si ritenesse che la deroga agli effetti dell’art. 2112 c.c. sia possibile solo nell’ipotesi di liquidazione con cessazione di attività, la conclusione paradossale sarebbe che nella liquidazione giudiziale in cui l’attività prosegua non sarebbe possibile alcuna deroga all’art. 2112 c.c., non essendo tale eventualità contemplata nel comma 4-bis del citato art. 47. Appare invece più coerente ritenere che il legislatore italiano abbia incluso entrambe le forme che può assumere la liquidazione giudiziale all’interno del comma 5, ciò in ragione della natura certamente liquidativa di tale procedura concorsuale.
Tale interpretazione appare inoltre essere quella più coerente con la posizione assunta dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia sopra richiamata
Alla luce di quanto sin qui argomentato si può dunque concludere che è possibile derogare ai tre effetti previsti dall’art. 2112 c.c. e dalla direttiva europea nel caso in cui la struttura fatta oggetto del trasferimento presenti i requisiti richiesti dalla definizione dettata dal comma 5 dell’art. 2112 c.c. e il trasferimento sia concluso in seno ad una procedura di liquidazione giudiziale o ad un concordato preventivo liquidatorio .

5. Conclusioni

Nonostante la chiara posizione espressa dalla Suprema Corte, che ha scelto una soluzione che favorisce la certezza del diritto in quanto consente di selezionare in maniera chiara gli ambiti entro i quali è consentito di derogare alla continuità dei rapporti di lavoro, il contrasto presso la giurisprudenza di merito non sembra essersi sopito.
Come è stato opportunamente osservato , un punto di emersione evidente di tale dato è costituito dalla giurisprudenza sul caso Alitalia SAI – ITA, relativo al passaggio di alcuni assets da Alitalia in amministrazione straordinaria alla nuova ITA Airwais.
Secondo il Tribunale di Milano , che argomenta a partire dal più recente arresto dalla Corte di Giustizia sopra ricordato, “la finalità liquidatoria è compatibile con la cessione di un compendio attivo che prosegua nella nuova realtà imprenditoriale”.
Al contrario, il Tribunale di Roma ha osservato che, anche ad ammettere che l’obiettivo della procedura avesse finalità liquidatorie, “è però altrettanto chiaro che l’attività imprenditoriale non è mai cessata sino al giorno della conclusione del contratto di cessione e che i successivi programmi approvati nell’esecuzione della procedura hanno in ogni modo preservato questa condizione”.
Pur se tale contrasto giurisprudenziale si è generato con riferimento alla peculiare vicenda Alitalia, lo stesso è in ogni caso significativo del permanere di un dubbio circa il significato da attribuire alla distinzione tra procedure liquidativa e procedure conservative e, soprattutto, circa l’approccio che deve essere assunto in concreto nella valutazione della scelta fatta dalla procedura di permettere una sia pur parziale prosecuzione delle attività da parte del debitore.
Nonostante il recente intervento realizzato dal CCII, non può dunque ancora dirsi definitivamente risolta la questione delle condizioni per poter validamente derogare alle regole dettate dall’art. 2112 c.c. ed è facile prevedere che tali dubbi continueranno ad alimentare un contrasto giurisprudenziale significativo.
Coloro che a vario titolo si troveranno a dover gestire procedure concorsuali nelle quali si debba valutare la scelta di procedere ad una cessione dei compendi aziendali con una riduzione dell’occupazione (curatori, avvocati, consulenti del lavoro, dottori commercialisti), dovrebbero trarne la forte sollecitazione a perseguire la strada degli accordi individuali, laddove la condizione economica del debitore lo consenta. Una sollecitazione che può dirsi provenire dallo stesso legislatore, se si tiene conto che con l’ultimo periodo del comma 5 dell’art. 47 l. 428/1990, pur non essendo necessario, si è voluto espressamente ricordare che “resta altresì salva la possibilità di accordi individuali, anche in caso di esodo incentivato dal rapporto di lavoro, da sottoscriversi nelle sedi di cui all'articolo 2113, ultimo comma del codice civile”.

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