TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Il bel volume collettaneo curato da Ilario Alvino, Lucio Imberti e Roberto Romei invita ad una riflessione collettiva su un tema delicato e complesso quale è quello del rapporto di lavoro nelle imprese soggette ad una procedura di crisi.
Nelle prime righe dell’Introduzione, i Curatori, con poche battute, delineano efficacemente il tema di indagine osservando che il nuovo Codice della Crisi (“CCI”), infrange «la tradizione della “legge fallimentare” del 1942» introducendo «diverse norme dedicate al diritto del lavoro, a testimonianza della rilevanza assunta (anche) dagli interessi dei lavoratori (e non solo dei creditori) coinvolti in una crisi di impresa, al punto da reclamare una disciplina a sua volta specifica, per alcuni aspetti diversa da quella che riguarda tutti gli altri contratti» .
Non è da escludersi, tuttavia, che CCI faccia anche qualcosa in più.
Con la, peraltro corposa, disciplina contenuta negli artt. 189-192 CCI e nell’art. 368 CCI (per l’appunto) dedicato al “Coordinamento con la disciplina del diritto del lavoro”, il CCI sembra arricchire il diritto del lavoro – al pari del diritto dell’impresa e delle società – di una nuova e specifica branca, “il diritto del lavoro nell’impresa in crisi”.
Il che è una novità particolarmente significativa specie ove la si confronti con l’ondivaga tendenza della normativa previgente, a cui conviene, dunque, volgere un rapido sguardo per offrire una prospettiva in chiave dinamica dell’evoluzione della disciplina che interessa.

2. Anteriormente all’introduzione del CCI, la legislazione concorsuale in tema di lavoro poteva dirsi caratterizzata, da un lato, dalla “soverchiante subordinazione” dei diritti dei lavoratori alla tutela delle ragioni dei creditori in ogni procedura diversa dall’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi e, dall’altro lato, dalla significativa assenza di una visione (e di una normativa) unitaria del tema del rapporto di lavoro in tale peculiare fase della vita dell’impresa, affrontato dal legislatore sporadicamente e, a mio giudizio, senza una chiara ed univoca posizione di principio.
Anzi, non si era forse lontani dal vero nel ritenere che nella legislazione previgente vi fosse una sorta di attenzione (per così dire) “carsica” al problema che, a più riprese, sembra affiorare e d’improvviso poi scomparire nelle norme di settore, senza alcun apparente file rouge.
Prima delle riforme del 2006-2007, infatti, il diritto dei lavoratori era preso in considerazione per lo più: (i) nella (già ricordata) disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese (nelle sue diverse conformazioni a partire dalla legge Prodi del 1979) ; (ii) nella speciale tutela offerta dall’art. 2 della legge 29 maggio 1982, n. 297 al diritto di credito del lavoratore delle imprese assoggettate ad una procedura concorsuale ; (iii) nella deroga all’art. 2112 c.c. sancita dalla l. fall. per i trasferimenti “concorsuali” dei compendi aziendali (anche se con qualche incertezza circa l’applicabilità della disciplina di consultazione “sindacale” ); (iv) ma anche nella speciale disciplina delle cooperative di lavoro introdotta con l’art. 6 della legge 3 aprile 2001, n. 142, nella parte ove si prevede l’obbligatoria adozione di un regolamento interno contenente (tra l’altro) l’attribuzione all’assemblea dei soci della facoltà di deliberare, all’occorrenza, un piano di crisi aziendale per la salvaguardia dei livelli occupazionali anche attraverso (a) la possibile di riduzione temporanea dei trattamenti economici integrativi e (b) la (controversa e discussa) facoltà dell’assemblea di deliberare forme di apporto anche economico, da parte dei soci lavoratori, in proporzione alle disponibilità e capacità finanziarie .
In singolare contrapposizione a tale scarna e disorganica attenzione del legislatore al problema, v’era, tuttavia, da registrare, dal punto di vista operativo, una particolare vivacità dei lavoratori nella presentazione delle istanze di fallimento di (per lo più) iniziative economiche di piccolo cabotaggio stimolate dalla finalità di ottenere, in tal modo, la tutela del fondo di garanzia dell’INPS di cui all’art. 2 della legge 29 maggio 1982, n. 297.
Fenomeno, quest’ultimo, che, per inciso, con il Codice della Crisi pare destinato ad aumentare nonostante l’elevazione delle soglie quantitative di fallibilità e la “riduzione” dall’area dei soggetti “fallibili” (con l’esclusione delle start up innovative, delle imprese del terzo settore, delle società tra professionisti, ecc.) per effetto della nuova legittimazione prevista dall’art. 268, comma 2, CCI per l’apertura della liquidazione controllata (secondo cui «Quando il debitore è in stato di insolvenza, la domanda può essere presentata da un creditore anche in pendenza di procedure esecutive individuali», solo in parte attenuata dalla duplice regola dell’art. 268, comma 3, CCI secondo cui «non si fa luogo all’apertura della liquidazione controllata se l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell’istruttoria è inferiore a euro cinquantamila» o, nel caso di debitore persona fisica «se l’OCC, su richiesta del debitore, attesta che non è possibile acquisire attivo da distribuire ai creditori neppure mediante l’esercizio di azioni giudiziarie»).

3. Con la grande stagione riformatrice iniziata nel 2006-2007, il diritto dei lavoratori inizia ad essere preso in considerazione nei molti altri casi brillantemente analizzati nel volume oggi presentato.
Come da più parti messo in luce, la più rilevante forma di tutela delle ragioni dei lavoratori è, indirettamente (seppur non necessariamente), da ascrivere all’idea “forte” che ha caratterizzato le ultime (e plurime) revisioni della normativa concorsuale, comunemente individuata nella volontà legislativa di stimolare la cessione unitaria del compendio aziendale, specie se in funzionamento, in luogo della vendita atomistica dei singoli beni che lo compongono.
Anche se, come ben osservato da Roberto Romei, «l’equazione tra continuazione dell’attività dell’impresa, mantenimento del valore dell’impresa e salvaguardia dell’occupazione, avuto riguardo alla sistemazione degli interessi accolta dalla [riformata] legge fallimentare si rivelava meno facile e scontata (ed anzi, per nulla) di quanto non apparisse a prima vista» .
La norma centrale al riguardo è senza dubbio l’art. 105 l. fall. come modificata nel 2007 che, come è sin troppo noto, ha introdotto, al comma 1, l’innovativo principio della legittimità della vendita atomistica dei beni aziendali nei soli casi in cui risulti «prevedibile che la vendita dell’intero complesso aziendale, di suoi rami, di beni o rapporti giuridici individuabili in blocco non consenta una maggiore soddisfazione dei creditori». Regola, per l’appunto, che innegabilmente favorisce la vendita unitaria dell’azienda e, per tale via, anche la conservazione del complesso produttivo e dell’occupazione, ma che, altrettanto sicuramente, trova un evidente “limite” alla tutela (indiretta) offerta ai lavoratori nella disposizione del comma 3 che consente, seppur con l’accordo tra curatore, acquirente e rappresentanti dei lavoratori, «il trasferimento solo parziale dei lavoratori alle dipendenze dell'acquirente e le ulteriori modifiche del rapporto di lavoro consentite dalle norme vigenti».
Ma certamente rilevante per le finalità di cui si discorre è anche l’art. 104 bis l. fall. laddove si dispone che nell’affitto di azienda “endo-concorsuale” la scelta dell’affittuario deve essere effettuata tenendo conto non soltanto dell’ammontare del canone e delle garanzie offerte, ma anche (con formula invero sibillina) «della attendibilità del piano di prosecuzione delle attività imprenditoriali, avuto riguardo alla conservazione dei livelli occupazionali».
La norma – quale che sia il concreto significato dell’inciso relativo alla considerazione dei livelli occupazionali – pone certamente la valutazione del tasso di occupazione su un piano per così dire “secondario ed ancillare” rispetto a quello riservato al canone offerto, senza neppure premurarsi di chiarire quale debba essere la ponderazione di rilevanza tra entità del canone e numero degli occupati. Tanto che non è azzardato ipotizzare che il livello occupazionale offerto possa essere preso in effettiva considerazione soltanto nell’ipotesi, invero alquanto remota, di parità di canone offerto e di equivalenza tanto delle garanzie prestate, quanto del grado di attendibilità del piano presentato da più proponenti.
D’altronde, se la finalità legale dell’affitto d’azienda nel fallimento è unicamente quella della «più proficua vendita dell’azienda o di parti della stessa» (come espressamente chiarito dello stesso già ricordato art. 104-bis, comma 1, l. fall.), non si può certo escludere che la redditività del compendio e, dunque, tanto il canone di affitto quanto il prezzo di cessione (che ne sono diretta funzione) possa crescere al diminuire degli occupati. Con buona pace di ogni possibilità di effettiva tutela dell’occupazione nel fallimento.
Né, del resto, le cose mutano di molto sul punto con l’introduzione, nel 2013, della disciplina (di derivazione argentina) del c.d. workers buy out, ossia di un non trascurabile ulteriore segmento del diritto del lavoro nella crisi d’impresa.

3. L’art. 11, commi 2 e 3, D.L. n. 145 del 23 dicembre 2013 (convertito dalla L. 21 febbraio 2014, n. 9), con una norma invero non molto valorizzata né analizzata (e peraltro rimasta poi estranea al CCI,) introduce nel sistema concorsuale italiano due nuove regole aventi ad oggetto: (a) per un verso, il diritto di “prelazione” per l’affitto o l’acquisto dell’azienda riconosciuto alle cooperative costituite dai lavoratori delle imprese ammesse ad una qualsivoglia procedura concorsuale; (b) e, per altro verso, il diritto dei soci-lavoratori (che ne facciano richiesta) di ottenere, «all’atto dell’aggiudicazione dell’affitto o della vendita», l’anticipazione in unica soluzione delle somme altrimenti destinate alla loro integrazione salariale per il caso di interruzione del rapporto di lavoro.
In altra sede si è tentato di dimostrare che, nonostante il chiaro tenore letterale della legge, diverse ragioni (che qui non possono neppure essere riassunte) inducono a ritenere che la generica locuzione “prelazione” sia un’espressione “impropria” che disciplina non già ad un “diritto di preferenza a parità di condizioni”, ma, al contrario, una vera e propria “opzione” a concludere (in assenza di proposte di terzi) un contratto di affitto o di acquisto del complesso aziendale per un corrispettivo pari a quello “stimato” nel contesto della procedura concorsuale. Il che, peraltro, sarebbe del tutto coerente con la disciplina argentina delle “empresas recuperadas” del 2011 dalla quale trae certamente origine la norma italiana e che riconosce expressis verbis ai lavoratori delle imprese in crisi un vero e proprio diritto di acquisto dell’azienda ad un valore stimato.
Certo è che la norma, qualunque cosa significhi in concreto, sembra relegata in un cantuccio del sistema.
E ciò non tanto (e non soltanto) in ragione del fatto che il relativo testo non è stato riprodotto nel Codice della Crisi (quasi a testimonianza della sua “estraneità”), quanto e soprattutto in considerazione dell’assoluta carenza di coordinamento con la riforma, nonostante il fatto che la recente disposizione dell’art. 1, commi 224 ss., l. 30 dicembre 2021, n. 234 (ricordata da Ilario Alvino ) impone di considerare la cessione dell’azienda (proprio) ai lavoratori o alle cooperative di lavoro come parte tipica dell’obbligatorio piano da redigere per attenuare le ricadute occupazionali della cessazione dell’attività delle imprese (anche non in crisi).
Assenza di coordinamento che finisce per far sì che la disciplina di favore prevista dalla norma del 2013 per le operazioni di workers buy out non sembra poter trovare applicazione per il più “innovativo” dei possibili trasferimenti d’azienda finalizzati al risanamento introdotti con la riforma della legge fallimentare, ossia per la cessione autorizzata dal tribunale nel corso della composizione negoziata (ex art. 10 del DL 118/2021, ora trasfuso nell’art. 22 del CCI).
Rilevato, infatti, che la composizione negoziale di certo non è una procedura concorsuale, non v’è alcuno spazio per pensare di poter invocare l’applicazione ad una tale ipotesi di cessione della norma del 2013 che, testualmente, è riferita ai soli trasferimenti d’azienda “di imprese sottoposte a fallimento, concordato preventivo, amministrazione straordinaria o liquidazione coatta amministrativa”. Il che finisce per privare i lavoratori di una importante modalità di salvataggio dell’impresa presso la quale svolgono la loro attività, senza una apparente ragione che giustifichi una tale scelta.

4. Venendo alle novità più recenti, v’è da rilevare proprio l’appena ricordato trasferimento d’azienda nel contesto della composizione negoziata merita di essere considerata come una delle più rilevanti novità degli ultimi anni.
L’inedita previsione, infatti, della possibilità di derogare all’art. 2560 c.c. (ma, si badi, non anche all’art. 2112 c.c.) nell’ambito di un procedimento diverso da una procedura concorsuale consente il trasferimento d’azienda da imprese (formalmente ancora) in bonis e, dunque, apre la via ad ipotesi di risanamento con continuità aziendale indiretta assai più snelle, rapide e facilmente accessibili rispetto a quelle poste in essere nel contesto delle procedure di liquidazione giudiziale o di concordato preventivo .
La novità va, peraltro, letta unitamente alle altrettanto originali regole della composizione negoziata che sanciscono, per un verso, l’obbligo delle banche e degli intermediari finanziari in genere di partecipare attivamente alle trattative motivando esplicitamente il proprio eventuale dissenso alle proposte del debitore e, per altro verso, l’obbligo delle parti di collaborare attivamente per rideterminare il contenuto dei contratti “continuativi” aventi un sinallagma alterato (sul modello del c.d. “Hardship” di diritto internazionale ).
Se a ciò si aggiunge, poi, che il trasferimento d’azienda attuato nel corso della composizione negoziata non “sconta” neppure le procedure competitive dell’offerta concorrente imposte nel concordato preventivo , non ci vuol molto a rilevare che le possibilità di successo del procedimento stragiudiziale introdotto in sostituzione delle procedure di allerta e del procedimento affidato agli Organismi di composizione della crisi (OCRI)
dall’originaria impostazione del Codice della crisi del 2019 sono di gran lunga superiori, visto che gli OCRI potevano tutt’al più stimolare la conclusione di un piano attestato di risanamento utile ad esonerare le operazioni ivi contemplate dalla revocatoria fallimentare (cosa che faceva pensare che la montagna delle procedure di allerta avesse in realtà partorito poco più che un topolino).
Insomma, se agli OCRI era offerto in dotazione poco più che di un arco con le frecce, all’esperto è ora fornito un buon bazooka.
Ciò nonostante, v’è da dire che i numeri della composizione negoziata non sono (ancora) particolarmente lusinghieri, non tanto perché dopo due anni le procedure di composizione negoziata utilmente avviate sono appena un migliaio (ossia circa il 5% del totale delle crisi del periodo a fronte del 10% di concordati preventivi registrati nel periodo 2012-2015) e solo la metà di esse (n. 502 per l’esattezza) – in coerenza con la durata massima annuale (di centottanta giorni prorogabile per un identico periodo) prevista dall’art. 17, comma 7, CCI – ha avuto una qualche conclusione, quanto e soprattutto perché il tasso di successo delle procedure chiuse è attualmente pari soltanto al 16% (essendo rilevato in n. 83 casi su n. 502). Il che rappresenta un numero che, ancorché non trascurabile in termini relativi e statistici (anche considerando che dopo un anno la medesima percentuale era pari appena al 3%), pare ancora complessivamente “irrilevante” nel complessivo sistema della crisi delle imprese italiane (in media pari a circa 10.000 casi per anno).
Se a ciò si aggiunge l’osservazione che oltre la metà delle imprese che hanno utilizzato lo strumento con esito positivo sono organizzazioni di modeste dimensioni occupazionali (aventi meno di nove addetti ), non ci vuol molto a concludere che non è certamente per tale via che il diritto del lavoro nell’impresa in crisi potrà trovare soluzioni realmente utili (pur nella consapevolezza della rilevanza del dato sottolineato dall’Osservatorio sulla composizione negoziata attivato da Unioncamere secondo cui «a due anni dall’avvio della procedura (…) sono oltre 6.100 i lavoratori salvati dal licenziamento per chiusura dell’azienda» ).

5. Passando ad altro, v’è da dire che, nella particolare prospettiva di un cultore del diritto dell’impresa, i tratti della disciplina del CCI di maggior rilievo per il diritto del lavoro sembrano quelli che attengono, da un lato al valore della continuità (su cui nel volume oggi presentato si confrontano, a distanza di poche pagine, Roberto Romei e Bruno Inzitari ) e, dall’altro lato, alla rilevanza del disposto dell’art. 2086 c.c. (come ben approfondito ancora, da Roberto Romei e, poco più oltre, dall’approfondito saggio di Giuliana Scognamiglio ).
Al riguardo, ci si limita a qualche breve, e limitato, spunto di riflessione.

5.1. In tema di “continuità dell’impresa”, la sensazione che si ricava dalla lettura del nuovo CCI è che il legislatore consideri tale modalità di soluzione della crisi quasi come se fosse un “valore in sè”, piuttosto che un fenomeno meritevole di incentivazione in ragione della sua astratta capacità di generare effetti positivi in termini di soddisfazione dei creditori e ancor meno di tutela dei livelli occupazionali.
Come ben evidenziato da Bruno Inzitari con riguardo alla precisazione dell’art. 84, comma 2, CCI secondo cui «La continuità aziendale tutela l’interesse dei creditori e preserva, nella misura possibile, i posti di lavoro», la legge, in tal caso, non fa uso di «affermazioni retoriche (come a volte avviene in alcuni testi legislativi)» dal momento che si premura, nel successivo comma 3, di specificare nel dettaglio «le modalità di realizzazione di tale tutela prevedendo che la proposta di concordato deve prevedere per ciascun creditore “un’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile, che può consistere anche nella prosecuzione o rinnovazione di rapporti contrattuali con il debitore o con il suo avente causa”» .
Ad onor del vero, tuttavia, le modalità di soddisfazione previste dalla norma richiamata sembrano attenere unicamente al primo dei due segmenti normativi, e cioè alla tutela dei creditori, nulla disponendosi con riguardo alle modalità di realizzazione della tutela del secondo. Dal che discende che la preservazione, nei limiti del possibile, dell’occupazione sembra relegato a rappresentare (ancora una volta) un obiettivo di secondo piano e dai contorni piuttosto sfumati.
Né le cose mutano, del resto, volgendo lo sguardo altrove. E’ vero che, come ben evidenziato anche da Roberto Romei , l’art. 53, comma 5-bis CCI , sembra “parificare” «l’interesse generale dei lavoratori» a quello dei creditori nel particolare caso del reclamo contro l’omologazione del concordato in continuità. Ma è anche vero che anche in tal caso si può dubitare della codificazione di una vera e propria “equiparazione di interessi” (come, forse, sembra invece suggerire Roberto Romei ).
E ciò in quanto non pare che l’esistenza di un “interesse generale dei lavoratori” possa da sola surrogare l’eventuale assenza di un “interesse generale dei creditori”. La norma, infatti, sembra consentire di superare l’interesse particolare del reclamante (non a caso neutralizzato dal riconosciuto diritto al risarcimento del danno) soltanto se e quando sussiste (anche) quello generale dei creditori oltre (e verrebbe da dire, eventualmente) all’interesse dei lavoratori. E non anche quando sussiste soltanto quest’ultimo.

5.2. Sull’art. 2086 c.c. e sulla sua rilevanza nel diritto del lavoro, credo che, come rilevato tanto da Roberto Romei quanto da Giuliana Scognamiglio , non vi sia spazio per affermare l’esistenza di un diritto soggettivo del singolo lavoratore a che l’organizzazione dell’impresa sia conformata ad una certa modalità piuttosto che ad un’altra. Né che, conseguentemente, questi possa avere titolo al risarcimento del danno per la perdita del posto di lavoro in conseguenza di un difetto organizzativo (o meglio del verificarsi di eventi evitabili con una adeguata organizzazione).
Efficacemente, Roberto Romei osserva che «Il dovere di predisporre assetti adeguati va interpretato in maniera tale da salvaguardare il nucleo essenziale della libertà di iniziativa economica privata» che non può non comprendere la piena «libertà dell’imprenditore nell’organizzare la propria impresa e che ne uscirebbe inevitabilmente compromessa ove fosse consentito sindacare i provvedimenti adottati nei confronti dei lavoratori alla luce non solo dei presupposti espressamente richiesti alla legge per la loro legittimità, bensì anche alla luce della adeguatezza dell’assetto organizzativo, che va parametrata, letteralmente, in relazione non ai provvedimenti adottati nei confronti dei lavoratori, bensì a tutt’altro referente, quello della natura e delle dimensioni dell’impresa» .
Ma è da condividersi anche la riflessione di Giuliana Scognamiglio circa il fatto che poiché difficilmente «l’inadeguatezza organizzativa dell’impresa» può «essere fonte di un pregiudizio diretto in capo a determinati terzi, lasciando “illeso” il patrimonio sociale», non v’è spazio per ritenere sussistente il «presupposto stesso per l’applicazione dell’art. 2395 c.c., che risiede (…) nell’essere il terzo direttamente danneggiato dall’azione dell’amministratore» .
Al riguardo, ci si può, dunque, limitare a segnalare la ancora critica (o, comunque, più critica) rilevanza della sempre più netta distinzione (ancora una volta ben messa in luce da Giuliana Scognamiglio ) tra doveri di organizzazione e doveri di gestione nel particolare tipo societario delle s.r.l.
E’ noto, infatti, che il modello organizzativo di società di capitali più diffuso (e che rappresenta più del 90% delle società di capitali attive e più del 60% del totale delle società attive nel nostro Paese) è caratterizzato (anche) dall’ampia possibilità consentita ai soci di ingerirsi nel merito delle decisioni gestorie che, normalmente, ma non essenzialmente, sono di competenza degli amministratori (fatta eccezione, a norma dell’art. 120-bis CCI, per la scelta dello strumento e del contenuto della proposta di soluzione della crisi).
Una ormai celebre e brillante metafora ferroviaria è utile a chiarire il punto: nelle s.r.l., occorre tener distinte le decisioni, sempre di competenza esclusiva degli amministratori, sulla dimensione dei “binari” adeguati rispetto ai treni che debbono utilizzarli (gli assetti organizzativi) dalle decisioni sul contenuto dei “vagoni” che vi debbono circolare (la gestione dell’impresa) che, di contro, possono anche essere di competenza dei soci. Ma ciò non basta a risolvere il problema.
Come acutamente rilevato da Gaetano Presti , infatti, «gli amministratori devono pur sempre rifiutarsi di far circolare sui binari da loro predisposti vagoni inadatti o eccessivamente caricati dai soci».
Il che, evidentemente, è sufficiente a dimostrare che, non soltanto nelle s.p.a., ma anche nelle s.r.l. il centro della scena è sempre occupato dall’organo amministrativo che è comunque chiamato, sotto la propria responsabilità, non soltanto ad organizzare l’impresa in modo adeguato, ma anche a valutare la compatibilità delle decisioni altrui con l’organizzazione adottata.
Conclusione, quest’ultima, che consente di estendere anche a tale tipo di società la conclusione che il merito delle decisioni “organizzative” assunte degli amministratori è “sostanzialmente” insindacabile in applicazione della nota regola della business judgement rule , relegando la rilevanza delle eventuali carenze di organizzazione ai soli fini dell’art. 2409 c.c. . Il che, tuttavia, non è detto che sia poco.

6. Per concludere, pare opportuno svolgere una rapida considerazione di carattere più generale.
Bruno Inzitari, da par suo, riesce in poche ed efficacissime righe a dipingere compiutamente i tratti essenziali delle ragioni sottese alla lunga stagione riformatrice avviata dalla Commissione Trevisanato e, certamente, non ancora conclusa.
L’efficace sintesi riporta alla memoria un episodio accaduto in un convegno romano dei primi anni del 2000, allorquando un giudice americano (del cui nome, tuttavia, non ho, colpevolmente, conservato memoria), dopo una pregevolissima relazione sul sistema concorsuale americano, folgorò l’attenzione degli uditori con una battuta tanto semplice quanto drammatica.
Alla domanda dei presenti sulle ragioni per le quali il sistema concorsuale americano si riducesse a due sole norme, il Chapter 11 e il Chapter 13, il pragmatico magistrato statunitense rispose a sua volta con una domanda chiedendo come fosse possibile che l’allora settimo Paese più industrializzato al mondo, nonché culla della lex mercatoria, potesse dedicare alla crisi dell’impresa migliaia di regole complicatissime per poi offrire ai propri creditori una soddisfazione media del sette per cento dopo sette anni.
Ecco, il punto, che piaccia o no, è ancora quello di allora: l’efficacia delle procedure concorsuali nella soddisfazione delle ragioni dei creditori. Ma con almeno un paio di aggravanti.
La prima è che l’obiettivo è ancora oggi oggetto di ricorrenti proclami ma di (pressocché) nessuna misurazione empirica.
La seconda è che in questa lunga stagione di riforme si è spesso ragionato “per principi” e non “per effetti”, operando scelte dogmatiche non sorrette da alcuna osservazione dei risultati prodotti dalle scelte precedenti.
Il che, in sincerità, è un approccio che difficilmente può far sperare di aver superato la criticità sottolineata dal giudice americano.
Ma, naturalmente, l’auspicio è di essere smentiti dai risultati che verranno, anche e soprattutto in termini di tutela dell’occupazione.

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