TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

ART 189 CCI DOPO D.LGS. 136/2024

ART 190 CCI DOPO D.LGS. 136/2024

ART 191 CCI DOPO D.LGS. 136/2024

ART. 32 D.LGS. 136/2024

1. Il terzo intervento correttivo del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza. 
Il decreto legislativo 13 settembre 2024, n. 136 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 227 del 27 settembre 2024) reca «Disposizioni integrative e correttive al codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza di cui al decreto legislativo del 12 gennaio 2019, n. 14».
Si tratta, appunto, di un ulteriore intervento integrativo e correttivo – precisamente il terzo, dopo quelli operati con il d.lgs. 26 ottobre 2020, n. 147 e con il d.lgs. 17 giugno 2022, n. 83 – del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d’ora in poi solo CCI).
Chi scrive ha già affrontato e commentato a più riprese su questa Rivista l’impostazione originaria del CCI e la sua rinviata entrata in vigore a causa della pandemia da Covid-19 , nonché i profili lavoristici delle diverse procedure con specifico riferimento al problematico bilanciamento tra tutela dei creditori e tutela dei lavoratori , alla disciplina dei rapporti di lavoro nel concordato preventivo e ancora al trasferimento d’impresa in crisi e alle possibili deroghe all’art. 2112 c.c. .
A tali contributi, come pure a quelli di altri Autori pubblicati nel n. 2/2024 di questa Rivista, ci si permette di rinviare, dedicando quindi il presente intervento ai soli elementi di novità (rectius: di chiarimento) apportati al testo del CCI dal d.lgs. n. 136/2024 attraverso disposizioni che riguardano essenzialmente e quasi esclusivamente la sorte e la regolazione dei rapporti di lavoro nella liquidazione giudiziale, non essendo state viceversa operate modifiche incidenti sui profili lavoristici delle altre procedure disciplinate dal CCI.
2. I rapporti di lavoro nella liquidazione giudiziale: il “nuovo” art. 189. 
L’art. 32, comma 2 del d.lgs. n. 136/2024 sostituisce integralmente l’art. 189 CCI, per quanto gran parte del testo previgente sia riproposto identico anche nella nuova formulazione.
Secondo la Relazione illustrativa presentata dal Governo alle Camere per il parere sul decreto legislativo “correttivo”, la necessità di operare una riscrittura dell’articolo in esame discenderebbe dal fatto che la disciplina del subentro nei rapporti di lavoro, oltre a perseguire la tutela i diritti dei lavoratori dipendenti, debba tenere in debito conto le peculiarità della liquidazione giudiziale tra le quali, innanzitutto, il fatto che l’impresa si trova in stato di insolvenza e che l’attività non può continuare se non in presenza di un esercizio provvisorio autorizzato dall’autorità giurisdizionale. Ne risulta – continua la Relazione illustrativa – che se da un lato va assicurata, laddove possibile, la prosecuzione dei rapporti di lavoro nell’ottica del mantenimento dei livelli occupazionali, dall’altro occorre evitare che essa vada a discapito della migliore soddisfazione dei creditori, determinando oneri per la procedura non utili ai fini della effettiva ripresa o continuazione dell’attività produttiva del debitore. Dal punto di vista regolativo, si legge ancora nella Relazione illustrativa, con le modifiche è stata razionalizzata e semplificata sia la procedura di recesso del curatore dai rapporti di lavoro sia quella di subentro, con la previsione di scadenze temporali coerenti con i tempi della procedura e nel rispetto dei diritti dei lavoratori.
In altri termini, l’intervento “correttivo” – come vedremo, senza stravolgere il testo previgente – vuole chiarire e ribadire, a scanso di equivoci “giuslavoristici”, la specialità della disciplina dei rapporti di lavoro subordinato nella liquidazione giudiziale e la preminenza della tutela dei creditori sulla tutela dei lavoratori.
In questo senso può essere letta la nuova formulazione dell’art. 189, comma 1, ove ora si dispone solamente che «i rapporti di lavoro subordinato in atto alla data della sentenza dichiarativa sono sospesi fino a quando il curatore, previa autorizzazione del giudice delegato e sentito il comitato dei creditori, comunica ai lavoratori di subentrarvi, assumendo i relativi obblighi, ovvero il recesso», mentre è stato eliminato il primo periodo, ove si affermava che «l’apertura della liquidazione giudiziale nei confronti del datore di lavoro non costituisce motivo di licenziamento». Secondo la Relazione illustrativa, il comma 1 ha subito modifiche volte alla semplificazione della norma, come l’eliminazione del primo periodo, non utile rispetto a quanto previsto da quello successivo, oppure a renderla più chiara.
Il comma 2 dell’art. 189 – al di là dell’eliminazione di un adempimento formale rivelatosi di scarsissima utilità – è rimasto sostanzialmente invariato e prevede che il recesso del curatore dai rapporti di lavoro subordinato sospesi ai sensi del comma 1 abbia effetto dalla data di apertura della liquidazione giudiziale, mentre il subentro del curatore nei rapporti di lavoro subordinato sospesi decorra dalla comunicazione dal medesimo effettuata ai lavoratori. Si conferma, quindi, che se durante il periodo di sospensione il curatore decide di subentrare nei rapporti di lavoro, tale subentro decorre solo dalla comunicazione dal medesimo effettuata ai lavoratori, non essendo quindi dovute retribuzioni e contribuzioni per il lasso di tempo dalla data di apertura della liquidazione giudiziale sino alla comunicazione di subentro da parte del curatore. Diversamente l’effetto del recesso del curatore retroagisce alla data di apertura della liquidazione giudiziale.
Il primo e secondo periodo del comma 3 dell’art. 189 prevedono – come riformulati dall’art. 32, d.lgs. n. 136/2024 – che «quando non è disposta né autorizzata la prosecuzione dell’esercizio dell’impresa e non è possibile il trasferimento dell’azienda o di un suo ramo, il curatore comunica per iscritto il recesso dai relativi rapporti di lavoro subordinato. In ogni caso, …, decorso il termine di quattro mesi dalla data di apertura della liquidazione giudiziale senza che il curatore abbia comunicato il subentro, i rapporti di lavoro subordinato in essere cessano con decorrenza dalla data di apertura della liquidazione giudiziale». La norma nel nuovo testo ripropone – nella sostanza e negli effetti – il “vecchio” testo, limitandosi ad adottare una nuova terminologia e, in particolare, sostituendo la controversa «risoluzione di diritto» dei rapporti dopo quattro mesi di inerzia del curatore con la più laconica e asettica «cessazione» dei rapporti decorso il medesimo termine di quattro mesi . Da notare, inoltre, che anche il “nuovo” testo non prevede né l’eventualità che il recesso del curatore possa essere illegittimo, né (tantomeno e ovviamente) le conseguenze e la sanzione per tale eventuale recesso illegittimo. Sembra, quindi, essere confermata nelle intenzioni del legislatore del CCI la volontà di configurare un recesso ad nutum, anche se sotto questo profilo una parte rilevante della dottrina giuslavoristica solleva critiche e dubbi di legittimità costituzionale e di compatibilità con la normativa UE (che riguardavano pure l’ipotesi della «risoluzione di diritto» e che ora verranno senza dubbio “trasferiti” sulla «cessazione» e riferiti ad essa) . Peraltro, a chi scrive non risulta – anche a seguito di colloqui con operatori delle procedure concorsuali – che si sia generato, in questi primi due anni di applicazione del CCI, alcun contenzioso in merito alla natura e forma del «recesso» del curatore di cui al comma 3 e, per la verità, nemmeno rispetto alle altre modalità di cessazione del rapporto previste dall’art. 189, ivi compresa la «risoluzione di diritto».
Utile ed opportuna – a concreti fini applicativi e di tutela dei lavoratori – appare invece l’aggiunta di un terzo periodo al comma 3, ove si chiarisce che «in caso di cessazione del rapporto di lavoro ai sensi del presente articolo non è dovuta dal lavoratore la restituzione delle somme eventualmente ricevute, a titolo assistenziale o previdenziale, nel periodo di sospensione» .
La riscrittura del comma 4 lascia sostanzialmente inalterata la previsione di una possibile proroga del periodo di quattro mesi di sospensione dei lavoratori se sussistono elementi concreti per l’autorizzazione all’esercizio dell’impresa o per il trasferimento dell’azienda o di un suo ramo, anche se la disciplina viene opportunamente e razionalmente semplificata (è, infatti, eliminata la possibilità del coinvolgimento in tale fase dell’Ispettorato del Lavoro, eventualità rivelatasi nella pratica del tutto teorica e – ad avviso della Relazione illustrativa – di «difficile se non impossibile attuazione che, anzi, rispetto agli obblighi ed alle responsabilità di gestione del curatore, può costituire un significativo intralcio al celere e lineare svolgimento della procedura»; si stabilisce, inoltre, che se, nel termine così prorogato il curatore non procede al subentro o al recesso, trova applicazione la disciplina prevista dal comma 3, secondo e terzo periodo, venendo così superato il complicato sistema di indennità contemplato dal previgente testo del comma 4). Peraltro, a quanto consta allo scrivente, la richiesta di proroga del periodo di sospensione oltre i quattro mesi è risultata, alla prova dei fatti, un’ipotesi estremamente rara, per non dire eccezionale .
Immutato rimane il comma 5, secondo cui, «salvi i casi di ammissione ai trattamenti di cui al titolo I del decreto legislativo 14 settembre 2015 n. 148, ovvero di accesso alle prestazioni di cui al titolo II del medesimo decreto legislativo o ad altre prestazioni di sostegno al reddito, le eventuali dimissioni del lavoratore nel periodo di sospensione tra la data della sentenza dichiarativa fino alla data della comunicazione di cui al comma 1, si intendono rassegnate per giusta causa ai sensi dell’articolo 2119 del codice civile con effetto dalla data di apertura della liquidazione giudiziale». La norma consente quindi al lavoratore di rassegnare le dimissioni per giusta causa durante il periodo di sospensione del rapporto lavorativo in pendenza della liquidazione giudiziale (e prima che sia intervenuta la comunicazione del curatore in ordine al subentro ovvero al recesso), ottenendo il pagamento dell’indennità di mancato preavviso e l’accesso al trattamento Naspi (sui termini e le modalità di accesso a tale trattamento v. infra il § 3). Come è ovvio, tuttavia, le dimissioni determineranno la cessazione del rapporto di lavoro, impedendo al lavoratore di giovarsi della tutela del posto di lavoro conseguente ad un eventuale trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda (per ulteriori valutazioni al riguardo v. infra il § 5). Va, peraltro, precisato – sulla base di quanto affermato dalla norma e confermato anche da una circolare dell’Inps – che «le dimissioni del lavoratore rassegnate durante il periodo di sospensione non sono qualificate ex lege per giusta causa e non producono effetti retroattivi nei casi in cui il lavoratore sia beneficiario dei “trattamenti di cui al titolo I del decreto legislativo 14 settembre 2015 n. 148, ovvero di accesso alle prestazioni di cui al titolo II del medesimo decreto legislativo o ad altre prestazioni di sostegno al reddito”. Al ricorrere di tali ipotesi, le dimissioni del lavoratore sono disciplinate dalle disposizioni recate dagli articoli 2118 e 2119 del codice civile» .
Invariato rimane anche il lungo ed articolato comma 6, ove si prevede una procedura più rapida e semplice per il licenziamento collettivo nell’ambito di una liquidazione giudiziale rispetto a quella ordinariamente prevista dalla l. n. 223/1991. Il licenziamento collettivo può, però, rivelarsi concretamente molto più oneroso per la procedura rispetto alle altre ipotesi di cessazione dei rapporti di lavoro subordinato, a fronte dell’ipotesi – frequente nella pratica delle liquidazioni giudiziali – che le Organizzazioni Sindacali manifestino «la volontà di non voler sottoscrivere accordi con esito positivo» , determinando così la triplicazione del contributo previsto dall’articolo 2, comma 31, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (c.d. “ticket” licenziamento), oggi non più coperto dall’esonero contributivo per le procedure concorsuali.
Il comma 7 dell’art. 189 – come novellato dall’art. 32, d.lgs. n. 136/2024 – opportunamente chiarisce l’esclusione dal campo di applicazione dell’art. 1, commi da 224 a 238, della legge 30 dicembre 2021, n. 234 (c.d. “normativa anti-delocalizzazioni”) dei licenziamenti collettivi intimati nell’ambito della liquidazione giudiziale ai sensi del comma 6 .
La riscrittura dei commi 8, 9 e 10 – sostanzialmente coincidenti con i commi 7, 8 e 9 del previgente art. 189 – ha, secondo la Relazione illustrativa, natura per lo più terminologica, intendendo assicurare una maggiore chiarezza delle disposizioni in essi contenute.
Si ribadisce così, per espressa previsione del comma 8, che la speciale procedura di licenziamento collettivo nella liquidazione giudiziale non trova applicazione nella diversa ipotesi della amministrazione straordinaria delle grandi imprese.
Il comma 9 torna ad affermare che, in ogni caso di cessazione del rapporto ai sensi dell’art. 189, spetta al lavoratore con rapporto a tempo indeterminato l’indennità di mancato preavviso, da considerare – ai fini dell’ammissione al passivo e unitamente al trattamento di fine rapporto – come credito anteriore all’apertura della liquidazione giudiziale. Il secondo periodo del comma 9 dispone poi che, nei casi di cessazione del rapporto ai sensi dell’art. 189, il già citato contributo previsto dall’articolo 2, comma 31, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (c.d. “ticket” licenziamento) è ammesso al passivo come credito anteriore all’apertura della liquidazione giudiziale .
Al comma 10 si prevede, infine, che, se è disposta o autorizzata la prosecuzione dell’esercizio dell’impresa, i rapporti di lavoro subordinato in essere a loro volta proseguono, pur rimanendo salva la facoltà del curatore di sospenderli (avvalendosi delle disposizioni del medesimo art. 189) ovvero di procedere al licenziamento dei lavoratori. Il testo riformato della norma sembra, quindi, legittimare il curatore a sospendere i lavoratori (o una parte di essi) secondo le previsioni dell’art. 189 anche dopo aver proseguito l’esercizio dell’impresa, evento che quindi non determinerebbe di per sé il “definitivo” subentro nel rapporto di lavoro e l’applicazione di tutta la disciplina “ordinaria” del lavoro subordinato. Viceversa, il curatore – ove decidesse di recedere dal rapporto di lavoro in costanza di esercizio dell’impresa – dovrebbe «procedere al licenziamento» sulla base della disciplina ordinariamente prevista per i rapporti di lavoro subordinato, non potendosi quindi avvalere delle norme speciali contemplate dai citati commi 3 e 6 dell’art. 189.

3. Naspi e liquidazione giudiziale: il “nuovo” comma 1-bis dell’art. 190  
L’art. 190 (« Trattamento Naspi ») del CCI – attuativo dell’art. 7, comma 7 della legge delega n. 155/2017 nella parte in cui prevede il coordinamento tra la disciplina degli effetti della liquidazione giudiziale sui rapporti di lavoro subordinato e le forme assicurative e di integrazione salariale – stabilisce che «la cessazione del rapporto di lavoro ai sensi dell’articolo 189 costituisce perdita involontaria dell’occupazione ai fini di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22 e al lavoratore è riconosciuto il trattamento Naspi a condizione che ricorrano i requisiti di cui al predetto articolo, nel rispetto delle altre disposizioni di cui al decreto legislativo n. 22 del 2015».
In sintesi, tale disposizione regola per i lavoratori subordinati dell’impresa in liquidazione giudiziale un regime di accesso alla Naspi sostanzialmente ordinario ai sensi del d.lgs. n. 22/2015, che opera quindi solo in presenza dei relativi requisiti e in caso di cessazione del rapporto di lavoro. La norma appare sostanzialmente pleonastica: deve, al riguardo, essere ricordato che tale previsione è mutata in modo pressoché integrale nel suo contenuto rispetto alla formulazione originariamente inclusa nello schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei Ministri l’8 novembre 2018, che all’art. 190 contemplava fondamentalmente l’anticipazione del trattamento Naspi durante la fase di sospensione dei rapporti di lavoro nell’ambito della liquidazione giudiziale. Nello specifico, si prevedeva che al lavoratore fosse corrisposto — sussistendo i requisiti previsti dall’art. 3, c. 1, lett. b e c del d.lgs. n. 22/2015 — a partire dalla data di apertura della liquidazione giudiziale, un trattamento equivalente a quello di Naspi, denominato Nuova prestazione di Assicurazione Sociale Per l’Impiego nella Liquidazione Giudiziale-NaspiLG. Peraltro, onde evitare aggravi di spesa, si prevedeva che la sommatoria del trattamento NaspiLG e del trattamento Naspi per il tempo successivo all’eventuale cessazione del rapporto non potesse superare la durata massima prevista dal d.lgs. n. 22/2015. In sostanza, il punto di equilibrio tra gli interessi dei creditori e quelli dei lavoratori si realizzava in tale schema attraverso lo scambio tra una maggiore flessibilità per la liquidazione giudiziale nelle regole relative alla cessazione dei rapporti di lavoro ed un immediato riconoscimento ai lavoratori di un sostegno al reddito attraverso la corresponsione della NaspiLG. Un tale bilanciamento era, del resto, funzionale ad agevolare (soprattutto in termini pratici) il curatore nella ricerca, con maggiore tranquillità e senza la pressione sindacale e dei lavoratori, di soluzioni idonee a garantire la continuità aziendale a più riprese auspicata dalla riforma. La NaspiLG è, tuttavia, venuta meno in sede di approvazione definitiva del CCI e il legislatore delegato ha ritenuto preferibile tutelare il reddito dei lavoratori non già prevedendo la sostanziale anticipazione del trattamento Naspi durante la sospensione ex lege del rapporto (ciò che sarebbe avvenuto attraverso la NaspiLG ed avrebbe inoltre permesso ai lavoratori di giovarsi, per esempio, della eventuale tutela del posto di lavoro a seguito di un trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda), ma consentendo le dimissioni per giusta causa (con relativo diritto al trattamento Naspi) sin dal momento di apertura della liquidazione giudiziale, a fronte tuttavia della ovvia cessazione del rapporto di lavoro.
L’art. 32, comma 3 del d.lgs. n. 136/2024 non muta in nulla il comma 1 dell’art. 190 CCI, mentre aggiunge allo stesso un comma 1-bis, ove si prevede che «i termini per la presentazione della domanda di cui all’articolo 6 del decreto legislativo n. 22 del 2015 decorrono dalla comunicazione della cessazione da parte del curatore o delle dimissioni del lavoratore».
Questa opportuna precisazione chiarisce alcuni aspetti delle modalità di accesso all’indennità di disoccupazione Naspi nelle ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro previste dall’art. 189 CCI e recepisce nel testo legislativo l’orientamento già assunto dall’Inps in una sua circolare , laddove si chiariva che «in via ordinaria, l’articolo 6 del D.lgs n. 22 del 2015 prevede che la domanda di NASpI deve essere presentata nel termine di decadenza di 68 giorni decorrente dalla data di cessazione del rapporto di lavoro. Nel caso in esame, tuttavia, al fine di dare attuazione alle richiamate disposizioni di cui agli articoli 189 e 190 del D.lgs n. 14 del 2019 e consentire al lavoratore che si dimette nel periodo di sospensione di poter presentare utilmente domanda di NASpI, si precisa che il termine di 68 giorni legislativamente previsto, a pena di decadenza, per la presentazione della domanda di NASpI decorre dalla data in cui il lavoratore rassegna le proprie dimissioni e non dalla data della cessazione del rapporto di lavoro. La medesima decorrenza della cessazione del rapporto di lavoro con effetto dalla data di apertura della liquidazione giudiziale è altresì prevista dal citato articolo 189, comma 2 e comma 3, anche per le altre due fattispecie di cessazione del rapporto di lavoro previste dal medesimo articolo (rispettivamente, recesso del curatore e risoluzione di diritto). Si precisa che anche in dette fattispecie di cessazione del rapporto di lavoro - che ai sensi del citato articolo 190 costituiscono comunque perdita involontaria dell’occupazione - il termine di decadenza di 68 giorni per la presentazione della domanda di NASpI decorre, nell’ipotesi del recesso da parte del curatore, dalla data in cui la comunicazione effettuata dal curatore medesimo è pervenuta a conoscenza del lavoratore e, nell’ipotesi della risoluzione di diritto, dalla data in cui il rapporto si intende risolto di diritto. Con riferimento alla ipotesi della risoluzione di diritto, si precisa che la stessa interviene decorso il termine di quattro mesi dalla data di apertura della liquidazione giudiziale senza che il curatore abbia comunicato il subentro, fatta salva l’eventuale proroga del predetto termine di cui al successivo comma 4 dell’articolo 189». Ovviamente, dopo il d.lgs. n. 136/2024, i riferimenti contenuti nella circolare Inps alla «risoluzione di diritto» devono ora intendersi alla «cessazione».
Per il resto si deve ritenere che tale circolare continui a fornire opportuni orientamenti applicativi anche dopo il terzo decreto correttivo del CCI, pure nella parte in cui fornisce due ulteriori chiarimenti.
Il primo, laddove esplicita che «quanto alla decorrenza della prestazione NASpI, … nelle fattispecie di cui alla presente circolare la prestazione decorre: 1. dall’ottavo giorno successivo alla data delle dimissioni/recesso del curatore/risoluzione di diritto del rapporto di lavoro, se la domanda è presentata entro l’ottavo giorno; 2. dal primo giorno successivo alla data di presentazione della domanda, nel caso in cui la medesima sia stata presentata successivamente all’ottavo giorno».
Il secondo, laddove stabilisce che «che l’assicurato, in sede di presentazione della domanda di NASpI, dovrà corredare la stessa con la relativa lettera di dimissioni/licenziamento; sarà cura degli operatori delle Strutture territoriali verificare, attraverso la consultazione degli archivi del Registro delle imprese, che l’azienda è in liquidazione giudiziale».

4. Una precisazione sulla procedura sindacale ex art. 47, l. n. 428/1990: il “nuovo” art. 191 
L’art. 32, comma 4 del d.lgs. n. 136/2024 riformula parzialmente l’art. 191 CCI, disponendo che «al trasferimento di azienda disposto nell’ambito degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza o della liquidazione giudiziale o controllata si applicano, in presenza dei relativi presupposti, l’articolo 47 della legge 29 dicembre 1990, n. 428, l’articolo 11 del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 145, convertito nella legge 21 febbraio 2014, n. 9 e le altre disposizioni vigenti in materia».
Rispetto al testo previgente, la nuova formulazione pare principalmente volta a precisare che la procedura sindacale prevista dall’art. 47 della l. n. 428/1990 si applica, anche nell’ambito delle procedure regolate dal CCI, solo «in presenza dei relativi presupposti», vale a dire nel caso in cui il trasferimento riguardi un’azienda nella quale sono complessivamente occupati più di quindici lavoratori.
Tale precisazione si è resa necessaria alla luce della controversa interpretazione del precedente testo dell’art. 191 CCI («Al trasferimento di azienda nell’ambito delle procedure di liquidazione giudiziale, concordato preventivo e al trasferimento d’azienda in esecuzione di accordi di ristrutturazione si applicano l’articolo 47 della legge 29 dicembre 1990, n. 428, l’articolo 11 del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 145, convertito nella legge 21 febbraio 2014, n. 9 e le altre disposizioni vigenti in materia»), che non chiariva se il citato art. 47 si applicasse in ogni caso (quali che fossero le dimensioni dell’impresa sottoposta alla procedura) ovvero se trovasse applicazione solo alle imprese delle dimensioni ivi previste .

5. Conclusioni: la tutela (del reddito) dei lavoratori attraverso la Naspi a fronte della prioritaria tutela dei creditori e della più agevole riduzione degli organici nella liquidazione giudiziale
Gli interventi di cui al d.lgs. n. 136/2024, sopra brevemente passati in rassegna, sembrano costituire più delucidazioni a fini interpretativi ed applicativi del testo del CCI previgente che non effettive modifiche dello stesso.
Del resto questo è stato l’intento più in generale del decreto correttivo che, come è stato rilevato, «ha avuto come primo obiettivo quello di oliare i meccanismi laddove gli stessi avevano mostrato di incepparsi. Un decreto correttivo ha spazi di manovra assai ristretti, ma può intervenire almeno su alcuni dei passaggi critici che hanno attirato l’attenzione degli operatori, facendola convergere su questioni anche di dettaglio» .
La direzione in cui si muove il terzo decreto correttivo del CCI è, però, senza dubbio quella di rafforzare la facoltà per il curatore di “sciogliersi” con relativa semplicità dai rapporti di lavoro subordinato in essere al momento dell’apertura della liquidazione giudiziale e contestualmente sospesi.
Senonché – come notano alcuni arguti operatori pratici delle procedure concorsuali e, segnatamente, delle liquidazioni giudiziali – tale opzione legislativa parrebbe andare in controtendenza rispetto all’obiettivo palesato a più riprese nello stesso CCI, vale a dire favorire la continuità dell’azienda in crisi e il “salvataggio” della sua parte ancora potenzialmente produttiva e “commerciabile”.
Infatti, come sopra rilevato, l’art. 189 se, da un lato, sospende senza retribuzione e contribuzione i lavoratori, dall’altro, agevola (quasi induce) i lavoratori stessi a dimettersi per accedere alla Naspi ed ottenere così un reddito.
L’effetto, per certi versi paradossale, che pare essersi realizzato in questi primi due anni di applicazione delle norme “giuslavoristiche” della liquidazione giudiziale è, quindi, quello di determinare una “fuga” repentina e subitanea dei lavoratori, in particolar modo quelli professionalmente più qualificati ovvero proprio quelli che sarebbero certamente più appetibili per l’eventuale acquirente dell’azienda in crisi, ma che allo stesso tempo sono quelli che più facilmente e rapidamente si collocano sul mercato e sono conseguentemente poco inclini a rimanere “sospesi” . Ciò determina, inevitabilmente, nel potenziale acquirente un minore interesse all’acquisizione dell’azienda una volta rimasta priva dei suoi lavoratori “fondamentali”.
Fermo restando che anche nel CCI né la continuità aziendale, né la conservazione dei livelli occupazionali rappresentano interessi che l’ordinamento tutela autonomamente o, tantomeno, il fine della procedura, ma solo un mezzo per assicurare meglio l’interesse creditorio , pare tuttavia plausibile affermare che – in casi concreti noti a chi scrive – dalla perdita del patrimonio professionale costituito soprattutto dai lavoratori più qualificati possa derivare direttamente anche un depauperamento dell’appetibilità dell’azienda sul mercato e conseguentemente del valore di realizzo derivante dalla sua vendita poi messo a disposizione proprio dei creditori.

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