testo integrale con note e bibliografia
1. Introduzione.
La circolazione dell’impresa (intesa quale trasferimento – nelle forme delle varie fattispecie giuridiche in cui detto effetto si può effettivamente realizzare – di tutto il complesso aziendale o di uno o più dei rami dotati di esistente autonomia organizzativa e funzionale di cui la medesima eventualmente si compone) è un fenomeno sempre più utilizzato anche dal punto di vista operativo nel contesto della crisi dell’impresa stessa e nell’ambito delle operazioni di natura societaria che, sempre più frequentemente, vengono attuate da soggetti terzi (investitori e/o imprenditori privati)
La circolazione dell’impresa risponde alla finalità di garantire, ove ne sussistano le condizioni, la continuità aziendale (e, conseguentemente, sotto il profilo giuslavoristico, anche la salvaguardia totale o parziale dei posti di lavoro, seppur, come si vedrà infra, con possibili variazioni consentite in relazione al contesto concorsuale) o, in alternativa (e, in adesione ai principi fallimentari), la massimizzazione del beneficio per la massa dei creditori (mediante la alienazione di un asset aziendale ancora completamente o parzialmente funzionante).
Detti principi hanno ispirato la disciplina in tema di rapporti di lavoro nelle imprese in stato di crisi, introdotta nell’ambito del D.Lgs. n. 14/2019 (“Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza in attuazione della l. 19 ottobre 2017, n. 155”, d’ora in poi “CCII” o “Codice della Crisi”) e successive modifiche.
Il trasferimento d’azienda, infatti, costituisce “uno dei principali strumenti deputati nell’architettura del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza al risanamento dell’impresa, per favorire, contestualmente, la continuazione dell’attività produttiva” rimanendo “comunque sempre subordinato alla migliore realizzazione dell’interesse dei creditori” . L’impostazione di fondo del Codice della Crisi, così come il principio di tutela occupazionale garantito ugualmente tramite la continuità aziendale, sono di origine eurocomunitaria, più precisamente, provengono dalla Direttiva (UE) 2019/1023 sulla ristrutturazione e sull’insolvenza (“Direttiva Insolvency”), la quale prevede più precisamente che, qualora il risanamento e/o la continuità aziendale anche parziale (pure nell’ottica di tutela occupazionale) non sia possibile – per le evidenti criticità a livello di business dell’impresa in crisi – la circolazione dell’impresa consente, in alternativa, la massimizzazione del beneficio per la massa dei creditori e, in ogni caso, consente di impedire – o almeno limitare – la perdita di posti di lavoro nonché la perdita di conoscenze e competenze .
Il suddetto principio è ribadito nella Relazione Illustrativa al CCII, la quale recita – in relazione all’art. 191 del medesimo testo rubricato “Effetti del trasferimento di azienda sui rapporti di lavoro” – che “Con l’espresso rinvio alla disciplina lavoristica si è inteso dare attuazione al principio enunciato dalla legge delega, che impone di “armonizzare le procedure di gestione della crisi e dell’insolvenza del datore di lavoro con le forme di tutela dell’occupazione e del reddito dei lavoratori che trovano fondamento [...] nella direttiva 2001/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2001, come interpretata dalla Corte di giustizia dell’Unione europea”.
Come noto, a differenza delle dinamiche circolatorie che caratterizzano l’impresa in bonis, nella quale i rapporti di lavoro dei lavoratori sono resi “insensibili” alle vicende che danno luogo alla “circolazione” dell’impresa da un imprenditore ad un altro, nell’impresa in crisi vi è uno stato di pericolo per l’occupazione: si applicano, dunque, eccezioni ai principi generali nella prospettiva di garantire il risanamento dell’impresa ovvero, qualora ciò non sia possibile, la tutela della massa dei creditori, realizzando, in tal modo, un equilibrio tra il diritto del lavoro e il diritto concorsuale.
Sotto il profilo giuslavoristico, nell’ambito del trasferimento d’azienda, disciplinato dall’art.2112 c.c., con l’entrata in vigore del CCII è necessario fare riferimento agli articoli 191 e 368 del CCII, fondamentali nell’ambito dell’intersezione tra il diritto della crisi d’impresa e il diritto del lavoro.
Gli interventi normativi riportati nelle citate norme, e di cui si dirà infra, sono in linea con l’idea secondo cui “per il tramite della salvaguardia dell’impresa e della sua continuità si possa salvaguardare l’occupazione” in luogo della precedente prospettiva che “non costituisce più il fine che l’ordinamento tende a perseguire ma diviene suvvalente rispetto alla prospettiva sposata dalle recenti direttive volta a garantire il going concern” . L’incontro tra il diritto concorsuale ed il diritto del lavoro difatti “ha significativamente creato un animato dibattito tra dottrina concorsuale e dottrina lavoristica” .
Il contrasto tra le due discipline, nel corso degli anni, si rinviene anche nella loro differenza strutturale e funzionale in quanto il diritto fallimentare, a differenza del diritto del lavoro, presenta un’ampia componente processuale: tali divergenze hanno fatto sì che il diritto fallimentare tenesse conto del lavoratore in quanto “creditore privilegiato cui assicurare tutela sul piano processuale” e non in quanto lavoratore titolare di ulteriori diritti o interessi.
Le difficoltà riconducibili al mancato contemperamento della tutela dei creditori da un lato, e della tutela dei lavoratori dall’altro, è causa “della diffidenza verso la disciplina della crisi d’impresa” .
Per molto tempo, in particolare, nell’ambito della precedente disciplina delle procedure concorsuali è stata privilegiata la tutela dei creditori ponendo in secondo piano la tutela dell’occupazione: a titolo esemplificativo, basti pensare che il potere di recesso datoriale era privo di limiti.
Sotto il profilo pratico ed operativo, la possibilità di realizzare e portare efficacemente a termine operazioni di trasferimento di azienda, in senso ampio, nel contesto della crisi, sono sempre dipese dell’applicazione dell’art. 2112 c.c. e delle sue possibili deroghe.
Come rilevato da autorevole Dottrina, inizialmente, stante il carattere inderogabile della disciplina di cui all’art. 2112 c.c., il trasferimento d’azienda (inteso in senso ampio) si configurava come un’“operazione economica sfavorevole” , e, pertanto, si riteneva preferibile, in ottica concorsuale, ricorrere a strumenti alternativi (quali i licenziamenti collettivi che, nella precedente disciplina di legge, erano corredati da minori garanzie per i lavoratori interessati).
Nel corso del tempo però, specie a partire dagli anni settanta, è stato reso meno agevole l’accesso alle procedure di licenziamento collettivo, a causa dell’“irrigidimento della legislazione” nonché del particolare contesto storico e legislativo (basti pensare – primo fra tutti – allo “Statuto dei Lavoratori”).
Oggi, all’esito di un lungo processo storico – di fatto ancora in corso – il trasferimento d’azienda è diventato uno degli strumenti preferiti per recupero dell’impresa, e ne sono una conferma gli istituti del CCII che ne prevedono il relativo utilizzo nelle varie fasi della crisi d’azienda, con sfumature differenti rispetto al livello della crisi medesima. Ed infatti, detto strumento trova spazio nelle seguenti disposizioni del CCII:
(i) l’art 12 comma 2, in tema di composizione negoziata , nel quale viene visto quale “una delle soluzioni che possono formare oggetto di trattative tra l’imprenditore, i creditori e gli eventuali terzi interessati” ;
(ii) gli artt. 25 sexies e 25 septies, comma 2, in tema di concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, a cui si ricorre all’esito della composizione negoziata laddove quest’ultima sia stata esperita senza successo, e che in tema di trasferimento prevedono che “Quando il piano di liquidazione di cui all’articolo 25 sexies comprende un’offerta da parte di un soggetto individuato avente ad oggetto il trasferimento in suo favore dell’azienda o di uno o più rami d'azienda o di specifici beni, il liquidatore giudiziale, verificata l’assenza di soluzioni migliori sul mercato, dà esecuzione all’offerta e alla vendita si applicano gli articoli da 2919 a 2929 del codice civile”.
(iii) l’art. 84 CCII, che disciplina il concordato preventivo, prevede due tipologie di continuità aziendale: diretta, con la prosecuzione dell’attività d’impresa in capo all’imprenditore che ha presentato domanda di concordato e indiretta, caratterizzata, invece, da una gestione/ripresa dell’attività aziendale da un soggetto diverso dal debitore “in forza di cessione, usufrutto, conferimento dell’azienda in una o più società, anche di nuova costituzione, ovvero in forza di affitto, anche stipulato anteriormente, purché in funzione della presentazione del ricorso, o a qualunque altro titolo.”
Nel contesto qui analizzato si inserisce anche la nuova formulazione dell’art. 2086 c.c. , la quale ha recepito l’importanza – nelle situazioni di crisi di impresa – di un’azione tempestiva stabilendo al comma 2 che: “L’imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale” .
Quanto al trasferimento d’azienda, esso – come noto – viene definito dall’art. 2112 c.c. come “qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato ivi compresi l’usufrutto o l’affitto di azienda.”.
Come previsto dall’art. 2112 c.c., tra gli effetti del trasferimento d’azienda in bonis vi sono: (a) il mantenimento delle condizioni di lavoro, in quanto il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano (comma 1); (b) la solidarietà tra il cedente ed il cessionario che sono obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento (comma 2); (c) la possibilità di liberare il cedente dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro attraverso la sottoscrizione di un verbale di conciliazione in sede protetta (comma 2); (d) l’obbligo di applicazione, da parte del cessionario, di tutti i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all'impresa del cessionario (comma 3); (e) il fatto che il trasferimento d’azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento (comma 4).
La portata delle deroghe ai suddetti principi cardine in tema di trasferimento degli assets aziendali nonché le tempistiche e le formalità del confronto sindacale previsto ex lege, costituiscono congiuntamente elementi essenziali per la valutazione – sotto il profilo operativo - della c.d. “fattibilità” e dell’”opportunità” per un eventuale acquirente e/o terzo interessato di un’operazione (nelle forme societarie previste per legge) che abbia quale oggetto il trasferimento dell’impresa o di una sua articolazione.
Pertanto, dopo aver effettuato le usuali e necessarie valutazioni degli assets dell’azienda e della sua capacità di proseguire la sua attività tipica – seppur con investimenti e piani di rilancio da parte di un soggetto terzo – il potenziale terzo acquirente dell’impresa in crisi non può prescindere dalla valutazione circa gli impatti in termini di costi e di gestione che, in detto contesto e in base alla tipologia di operazione pianificata, il personale comporterebbe.
In detta operazione di valutazione, nella quale rilevano indubbiamente i costi del personale e le relative tempistiche di gestione (anche sotto il profilo sindacale), è essenziale comprendere la effettiva modalità applicativa delle norme già citate nella loro versione attuale.
A tal fine, e stante le numerose difficoltà interpretative che si riscontrano nell’applicazione concreta delle norme, derivanti dalle continue modifiche normative e dalla suddetta necessità di dover contemperare – nel contesto di crisi – due interessi contrapposti, è bene aver presente l’origini eurocomunitaria dei principi ispiratori delle norme, oltre che l’excursus che ha portato alla relativa formulazione nella versione oggi vigente.
Si tratta certamente di strumenti utili anche agli operatori del diritto che quotidianamente si trovano a dover fronteggiare questioni operative dalle quali possono dipendere le sorti di un complesso aziendale, ma, ancora di più le sorti di numerosi posti di lavoro (con quanto poi ne consegue su altri piani).
Di seguito, quindi, un breve riepilogo della normativa eurocomunitaria e delle conseguenti modalità di recepimento da parte della normativa italiana circa i regimi di deroga ai principi generali in tema di trasferimento d’azienda, oltre a qualche cenno circa le procedure sindacali e relativi aspetti.
2. Orientamento eurocomunitario: un’analisi della normativa e della Giurisprudenza sui regimi di deroga.
Prima di procedere alla disamina della normativa interna di riferimento oggi applicabile, risulta necessario ripercorrere brevemente i principi cardine che regolano il trasferimento d’azienda (solo limitatamente ai trattamenti dei lavoratori ed ai relativi regimi di deroga, nonché alle procedure sindacali applicabili) secondo il diritto eurocomunitario al quale si è ispirato il nostro Legislatore nella redazione del CCII e che fornisce comunque indicazioni di natura interpretativa ed applicativa, anche sotto il profilo operativo, nella lettura delle norme interne, non sempre di facile applicazione alla casistica concreta.
La Direttiva 77/187/CEE prevede, infatti, due tipologie di tutele: una tutela di carattere individuale che si pone a salvaguardia dei diritti del singolo lavoratore – prosecuzione del rapporto di lavoro in capo al cessionario d’azienda senza soluzione di continuità – e una tutela di carattere collettivo finalizzata a coinvolgere le organizzazioni sindacali rappresentative dei lavoratori nell’esame delle problematiche occupazionali, economiche e normative connesse al trasferimento.
La Direttiva successiva in tema, ovvero la 98/50 CE, è stata recepita con il D.Lgs. n. 18/2001 che, novellando l’art. 2112 c.c., ha rafforzato le tutele del lavoratore e ne ha ampliato la portata applicativa.
Da ultimo, la Direttiva 2001/23 – che ha sostituito le precedenti direttive in materia di trasferimento d’azienda – ha definito i principi cardine in materia.
Il recepimento interno della materia è stato iniziato a seguito della condanna dell’Italia da parte della CGUE per il mancato recepimento della Direttiva 77/187/CE, che aveva ad oggetto la gestione dei trasferimenti d’impresa in relazione ai rapporti di lavoro .
La Direttiva 2001/23 è stata invece recepita con il D.Lgs. n. 276/2003, il quale sancisce i principi più importanti in materia di tutele dei lavoratori nell’ambito del trasferimento (sottostanti agli articoli 3 e 4 della Direttiva medesima), ossia: (a) la solidarietà tra cedente e cessionario; (b) il mantenimento delle condizioni di lavoro; (c) la stabilità delle condizioni di lavoro medesime .
L’articolo 5 della suddetta Direttiva delinea invece le differenze tra i regimi di deroga a seconda che si tratti di procedure liquidative ovvero di procedure volte alla conservazione dell’attività.
Il paragrafo 1 prevede una fattispecie derogatoria di tutti gli effetti di cui agli articoli 3 e 4 della Direttiva, con conseguenti deroghe all’effetto della continuità dei rapporti di lavoro alle dipendenze del cessionario, consentendo la sua liberazione dalla responsabilità per i crediti maturati dal lavoratore nei confronti del cedente prima del trasferimento, e permettendo la modifica delle condizioni di lavoro dovute ai lavoratori trasferiti .
L’art. 5, paragrafo 2 prevede, invece, una fattispecie derogatoria meno ampia in quanto deroga solamente a due effetti, autorizzando alla liberazione del cessionario dalla responsabilità per i crediti maturati dal lavoratore nei confronti del cedente prima del trasferimento e la modifica delle condizioni di lavoro dovute ai lavoratori trasferiti sulla base di un accordo tra le imprese cedente e cessionaria e i rappresentanti dei lavoratori.
Tale paragrafo restringe il campo di applicazione alle procedure di insolvenza che non devono necessariamente tendere alla liquidazione dei beni, pur dovendosi svolgere sotto il controllo di un’autorità pubblica competente .
L’art. 5, paragrafo 3 prevede, invece – nell’ambito di trasferimenti in cui il cedente sia in una situazione di grave crisi economica quale definita dal diritto nazionale, purché tale situazione sia dichiarata da un’autorità pubblica competente e sia aperta al controllo giudiziario, a condizione che tali disposizioni fossero già vigenti nel diritto nazionale il 17 luglio 1998 – la possibilità di modifica delle condizioni di lavoro dovute ai lavoratori trasferiti sulla base di un accordo tra le imprese cedente e cessionaria e i rappresentanti dei lavoratori.
In merito all’applicabilità della disciplina lavoristica sul trasferimento d’azienda la Corte di Giustizia dell’Unione europea già nel 1985 con la Sentenza Abels, aveva introdotto un criterio di discrimen basato sulla salvaguardia o meno del patrimonio, e, quindi, dell’attività d’impresa .
Anche l’orientamento successivo della CGUE ha mantenuto tale linea interpretativa, stabilendo che l’applicabilità delle tutele dipenda dalla continuazione o meno dell’attività di impresa, con la conseguenza che, anche nei procedimenti liquidatori nei quali non venga disposta la cessazione dell’attività aziendale (ovvero sia concesso il c.d. esercizio provvisorio), non sia possibile una disapplicazione delle tutele previste .
Un cambio di prospettiva in proposito si è avuto nel 2022 quando la Corte di Giustizia, pronunciandosi su un caso che ha coinvolto l’Olanda, ha ammesso la possibilità di qualificare la procedura come liquidativa anche nell’ipotesi in cui non sussista la cessazione dell’attività, ma anzi una prosecuzione di quelle più redditizie . Anche la Suprema Corte italiana si è allineata a tale orientamento .
Da ultimo, assume particolare rilevanza la Direttiva Insolvency 2019/1023 recepita dal Legislatore italiano con il D.Lgs. n. 83/2022, che a sua volta ha emendato il CCII. Essa ha la finalità di favorire il corretto funzionamento del mercato interno e di eliminare gli ostacoli alla libera circolazione dei capitali e alla libertà di stabilimento che derivano dalle differenze tra le legislazioni e le procedure nazionali in materia di ristrutturazione preventiva e insolvenza.
Sia la Direttiva Insolvency che la Direttiva 2001/23 CE si fondano sul presupposto che, in una situazione di insolvenza in cui l’imprenditore non sia in grado di garantire un equilibrio economico-finanziario, sia prioritario cercare di favorirne la prosecuzione dell’attività tenendo conto degli interessi collettivi di mercato e dell’occupazione.
Detti principi solo sommariamente esposti sono alla base della legislazione italiana vigente che li ha autonomamente recepiti con gli strumenti del diritto interno e costituiscono anche necessario strumento interpretativo per gli operatori del diritto che si trovano a fronteggiare casistiche pratiche, nelle situazioni di possibile dubbio applicativo.
3. Normativa nazionale: la disciplina dell’articolo 47 l. 428/90 e dei relativi regimi di deroga come modificato dall’ultimo correttivo del CCII .
In relazione alla normativa interna, occorre menzionare l’art. 191 del CCII il quale introduce espressamente un rinvio all’art. 47 della l. 428/1990, cosi aprendo formalmente la porta alle relative tutele e procedure in ambito concorsuale.
Detta norma dispone l’applicazione della procedura prevista dall’art. 47 della l. 428 del 1990 anche ai trasferimenti di azienda (e/o di una sua articolazione autonoma e funzionante) disposti nell’ambito degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza o della liquidazione giudiziale o controllata .
In proposito si segnala che, a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 136/2024 (“Correttivo Ter” al CCCII), l’art. 191 CCII è stato modificato, prevedendo che la procedura sindacale di cui all’art. 47 si applichi nell’ambito delle procedure regolate dal CCII “in presenza dei relativi presupposti” , ossia laddove il trasferimento riguardi un’azienda nella quale sono occupati, in totale, più di quindici lavoratori. La novella ha dunque svolto un’efficace funzione chiarificatrice: infatti, prima dell’entrata in vigore del Decreto correttivo ter, non era chiaro se l’articolo 47 si applicasse indipendentemente dalle dimensioni dell’impresa, oppure alle sole imprese con più di 15 lavoratori , come accade nelle imprese in bonis .
L’art. 47, l. n. 428/1990, è stato infatti a sua volta oggetto di modifica da parte del CCII, il cui art. 368 è intervenuto direttamente sulla disciplina delle procedure non liquidative previste dal co. 4-bis e liquidative di cui al successivo co. 5 con l’obiettivo cardine di conformarsi alla Giurisprudenza comunitaria, “consentendo all’autonomia collettiva la deroga all’effetto della continuità dei rapporti di lavoro nelle sole procedure liquidatorie nelle quali la prosecuzione dell’attività non fosse stata disposta o fosse cessata e, viceversa, inibendo ogni possibilità di derogare all’effetto della continuità dei rapporti di lavoro laddove la procedura concorsuale realizzasse la prosecuzione dell’attività produttiva in capo ad un diverso imprenditore ed anche laddove la prosecuzione dell’attività fosse disposta a seguito dell’apertura di una procedura liquidatoria” .
L’importanza dell’art. 368 CCII è stata messa in rilievo da autorevoli Autori, secondo i quali tale norma, insieme agli artt. 189-192 CCII, “sembra arricchire il diritto del lavoro – al pari del diritto dell’impresa e delle società – di una nuova e specifica branca, il diritto del lavoro nell’impresa in crisi”.
Il comma 4-bis dell’art.47 della l. n. 428/1990 (di recente modificato dall’art.368, c. 4, lett. b. del CCII e, da ultimo, dall’art. 55 del D.Lgs. n. 136/2024) come anticipato, si applica alle procedure non liquidatorie finalizzate alla continuità aziendali, per tali intendendosi due procedure il cui obiettivo è il risanamento dell’attività d’impresa, ossia: (a) la dichiarazione di apertura della procedura di concordato preventivo in regime di continuità indiretta, con trasferimento dell’azienda successivo all’apertura del concordato e (b) l’omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti non aventi carattere liquidatorio.
Il recente intervento da parte dell’art. 55 del D.Lgs. n. 136/2024 ha invece soppresso la terza ipotesi di procedura non liquidatoria prevista dal suddetto comma 4-bis dell’art. 47 della l. n. 428/1990, ossia: (c) l’amministrazione straordinaria in caso di continuazione o mancata cessazione dell’attività, ipotesi per la quale deve quindi ritenersi oggi non più applicabile il regime delle deroghe sancito dall’art.47 della l. n. 428/1990 .
Tornando invece al contenuto della norma, essa, nella sua formulazione attuale, stabilisce che, ai sensi dell’art. 2112 c.c., resta “fermo il trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro” mentre consente deroghe al regime delle tutele di cui all’art 2112 c.c., al contrario, relativamente alle “condizioni di lavoro” in presenza di un accordo sindacale con finalità di salvaguardia dell’occupazione stipulato con i soggetti particolarmente qualificati stabiliti dall’art.51 D.Lgs. n. 81/2015 .
È bene osservare innanzitutto che rispetto alla formulazione del co. 4-bis dell’art. 47 della l. n. 428/1990 antecedente all’introduzione del CCII, viene oggi sancito a chiare lettere (anche per le procedure liquidatorie, come avremo modo di vedere) il riconoscimento della continuità dei rapporti di lavoro dei trasferimenti di azienda disposti nell’ambito degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza . Nella formulazione precedente della norma era invece prevista la possibilità di stipulare un “accordo circa il mantenimento, anche parziale, dell’occupazione”, ipotesi che non aveva però mai convinto del tutto la Dottrina e la Giurisprudenza per il palese contrasto che andava ad ingenerare con l’ordinamento comunitario (in particolare con la direttiva 2001/23/CE, evolutiva della precedente 77/187/CEE ), che attribuisce ai lavoratori il diritto di passare automaticamente alle dipendenze dell’acquirente e limitando le facoltà di deroga ai soli casi in cui fosse pendente una procedura concorsuale di tipo liquidatorio .
La riformulazione del comma 4-bis dell’art. 47 della l. n. 428/1990 ad opera dell’art. 368, comma 4, lett. b. del CCII ha provveduto ad espungere dalla norma ogni riferimento all’accertamento dello stato di “crisi aziendale”, che era presente sin dalla formulazione originaria della norma, che perde oggi totalmente di rilevanza all’interno del nuovo apparato derogatorio .
Quanto invece al comma 5, dell’art. 47, l. n. 428/1990 (modificato dall’art. 368, comma 5, lett. c) esso trova oggi – a seguito del Correttivo ter - applicazione con riferimento alle procedure liquidatorie, per tali intendendosi: (a) la liquidazione giudiziale e (b) il concordato preventivo liquidatorio.
Anche in tale ipotesi – come anticipato – è prevista la continuità dei rapporti di lavoro ai sensi dell’art. 2112 c.c., con una deroga ipso iure alla solidarietà tra alienante ed acquirente per tutti i crediti esistenti al momento del trasferimento e con una deroga eventuale, tramite accordo sindacale avente finalità di salvaguardia dell’occupazione stipulato con i soggetti particolarmente qualificati stabiliti dall’art. 51, D.Lgs. n. 81/2015, di tutte le altre tutele di cui all’art. 2112 c.c. commi 1, 3 e 4, c.c. .
4. La procedura sindacale, i relativi adempimenti e i possibili accordi individuali.
A differenza del diritto eurocomunitario, il Legislatore italiano riserva le facoltà di deroga come illustrata nel paragrafo precedente alle associazioni e alle rappresentanze sindacali di cui all’art. 51 D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81; tuttavia, gli accordi di deroga di cui al comma 4-bis possono essere siglati dai soggetti coinvolti nella procedura ex art. 47, comma 1 anche laddove gli stessi non posseggano i requisiti previsti dall’art. 51, D.Lgs. n. 81/2015, a differenza degli accordi di deroga di cui al comma 5, in base al quale, ai fini dell’efficacia delle deroghe è necessario che l’accordo collettivo sia siglato dai soggetti sindacali previsti dall’art. 51 del D.Lgs. n. 81/2015 (tale differenza è riconducibile al fatto che, nel secondo caso, l’ampio spazio di manovra delle deroghe legittima e richiede il coinvolgimento delle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale) .
Rispetto alla portata soggettiva degli accordi sindacali di cui ai commi 4-bis e 5 dell’art. 47 (precedente alle modifiche apportate dal CCII) risulta doveroso sottolineare che non era presente alcun riferimento all’ art.51, D.Lgs. n. 81/2015 e pertanto si dibatteva della vincolatività di tali accordi nei confronti dei lavoratori non iscritti al sindacato stipulante. Un’opzione ermeneutica adottata dalla Dottrina è stata quella di qualificare tali accordi come “contratti di prossimità”, stante il riferimento dell’art. 8 della l. 148/2011 alla “gestione delle crisi aziendali e occupazionali” .
I diversi presupposti in termini di partecipazione soggettiva di cui commi 4-bis e 5 dell’art. 47 sono riconducibili al diverso impatto rivestito dagli eventuali accordi raggiunti.
Laddove l’attività dell’azienda prosegua, trova applicazione il comma 4 bis; in sede di consultazione sindacale, qualora venga raggiunto un accordo sindacale volto a conservare l’occupazione dei lavoratori, si possono al riguardo apportare modifiche esclusivamente alle condizioni di lavoro, quali, ad esempio, l’azzeramento delle condizioni di favor dei lavoratori passati al cessionario ovvero un diverso regime retributivo di questi ultimi nel rispetto delle condizioni di lavoro minime da garantire ai lavoratori.
Il comma 5 dell’art.47 è applicato, invece, nelle ipotesi in cui non venga disposta la prosecuzione dell’attività aziendale; come detto, in sede di consultazione sindacale, pertanto, possono essere siglati accordi che derogano ai commi 1, 3 e 4 dell’art. 2112 c.c. in presenza delle relative condizioni.
Secondo l’orientamento maggioritario, l’accordo sindacale esprime efficacia anche nei confronti dei lavoratori non aderenti al sindacato stipulante .
La procedura sindacale è disciplinata congiuntamente dagli artt. 47, commi 1, 1-bis (aggiunto dall’art. 368, c.4, CCII) e 2.
Il cedente e il cessionario devono dare alle rappresentanze sindacali comunicazione per iscritto del trasferimento almeno venticinque giorni prima che sia perfezionato l’atto da cui deriva il trasferimento.
Alla luce dell’aggiunta del comma 1-bis (norma che risponde ad una espressa esigenza operativa verificatasi nelle situazioni concrete), la comunicazione può essere effettuata anche solo da chi intende proporre un’offerta di acquisto dell’azienda o una proposta di concordato preventivo concorrente con quella dell’imprenditore e, in tale ipotesi, l’efficacia degli accordi di cui ai commi 4-bis e 5 può essere subordinata alla successiva attribuzione dell’azienda ai terzi offerenti o proponenti : detta norma favorisce le vicende circolatorie sotto il profilo dell’accelerazione delle attività prodromiche e finalizzate anche alla conoscenza dell’azienda e delle relative dinamiche (ivi incluse quelle sindacali) da parte di possibili acquirenti.
La consultazione sindacale, poi, si svolge su richiesta scritta delle rappresentanze sindacali o dei sindacati di categoria, comunicata entro sette giorni dal ricevimento della comunicazione da parte dei soggetti richiedenti; il cedente e il cessionario sono tenuti ad avviare, entro sette giorni dal ricevimento della predetta richiesta, un esame congiunto con i soggetti sindacali richiedenti. La consultazione si intende esaurita qualora, decorsi dieci giorni dal suo inizio, non sia stato raggiunto un accordo.
Si tratta, anche sotto il profilo operativo, di un momento essenziale della dialettica tra il sindacato (presente presso l’impresa in crisi) ed i possibili futuri acquirenti: in detta fase, nel contesto operativo, il futuro imprenditore è messo in condizione di conoscere le dinamiche dei rapporti sindacali e di valutare eventuali aspetti che – nel contesto aziendale oggetto di suo interesse – possano essere oggetto delle deroghe nei termini normativi descritti.
Laddove non vengano rispettati, da parte del cedente o del cessionario, gli obblighi informativi previsti dai commi sopracitati 1 e 2 dell’art. 47 (ovvero il mancato invio della comunicazione e/o il mancato esperimento della fase di consultazione da parte del cedente e del cessionario), in base al disposto dell’art. 47, comma 3, si configura la “condotta antisindacale” ai sensi dell’articolo 28 della l. 20 maggio 1970, n. 300; tale violazione procedurale non implica l’inefficacia/invalidità dell’atto di trasferimento , ma comporta, tuttavia, l’inefficacia del negozio traslativo sotto il profilo del trasferimento dei rapporti di lavoro.
Inoltre, la violazione della procedura ex art. 47 non è censurabile dal singolo lavoratore in quanto titolare di un mero interesse giuridicamente irrilevante a che il trasferimento avvenga nel rispetto della procedura .
Nei contesti pratici nei quali le norme descritte trovano applicazione, si verificano spesso situazioni di possibili contenziosi nei quali può accadere che gli eventuali lavoratori esclusi dalla cessione – in quanto qualificati come “non appartenenti” al ramo oggetto di cessione – rivendichino l’appartenenza al ramo con conseguente richiesta di costituzione di rapporti di lavoro con il nuovo acquirente (situazione ovviamente appetibile stante il contesto di decozione dell’impresa cedente): accade quindi, sovente, in detti contesti che il futuro acquirente ponga – quale condizione per procedere con la formalizzazione dell’acquisto – la condizione che il ramo sia c.d. “pulito”.
L’art. 47 prevede, oltre ai summenzionati strumenti di gestione del rapporto di lavoro nei contesti di crisi, anche la possibilità di una gestione non conflittuale dei rapporti di lavoro tramite la sottoscrizione degli accordi individuali ex art. 2113 c.c. in forza dei quali il lavoratore può rinunciare a contestare il trasferimento di azienda e a rivendicare la continuità del rapporto lavorativo alle dipendenze del cessionario laddove rientri nel novero dei lavoratori estromessi .
Detta norma autorizza la sottoscrizione di “accordi individuali, anche in caso di esodo incentivato dal rapporto di lavoro, da sottoscriversi nelle sedi di cui all'articolo 2113, ultimo comma del codice civile”.
L’accordo individuale non può però spingersi fino ad autorizzare l’autonomia individuale a porre in essere quanto altrimenti non potrebbe attuarsi in base alla normativa richiamata.
L’accordo sottoscritto nelle forme della negoziazione assistita è valido nella misura in cui esso abbia ad oggetto la rinuncia ai diritti maturati ex lege oppure in base ad una disposizione della contrattazione collettiva inderogabile, ma non solo: esso è valido se e nella misura in cui venga sottoscritto in un momento successivo a quello in cui si sono prodotti gli effetti del trasferimento d’azienda .
Non sono infrequenti, pertanto, gli accordi sindacali che assumono la veste di “contratti-cornice”, propedeutici alla sottoscrizione dei verbali individuali di conciliazione e aventi per oggetto la rinuncia, da parte del singolo lavoratore, dell’applicazione dell’art. 2112 c.c. nei suoi confronti e l’accettazione delle nuove condizioni economico-normative proposte dal cessionario .
La normativa in parola, poi, ha anche previsto, sul piano della tutela dei diritti dei lavoratori coinvolti, interventi rispetto all’accesso al fondo di garanzia ed al trattamento dei dipendenti.
L’art. 368, c. 4, lett. d) ha inoltre aggiunto all’art. 47 il comma 5-bis il quale enuncia che “il trattamento di fine rapporto è immediatamente esigibile nei confronti del cedente dell'azienda”, introducendo, pertanto, una deroga alla regola generale in base a cui non sia possibile esigere il trattamento di fine rapporto prima dell’estinzione del contratto di lavoro: il debito correlato al trattamento di fine rapporto sorge e resta in capo al cedente, il quale si configura come unico debitore .
Vi è, dunque, una deroga alla responsabilità solidale del cessionario d’azienda per tutti i crediti del lavoratore alla data del trasferimento nei soli casi di insolvenza, liquidazione e cessazione dell’attività d’impresa. Inoltre, il Fondo di Garanzia interviene anche a favore dei lavoratori che “passano”, circa la titolarità del loro rapporto di lavoro, senza soluzione di continuità alle dipendenze dell’acquirente .
Anche la Giurisprudenza conferma la possibilità per il lavoratore di esigere il trattamento di fine rapporto. Secondo l’orientamento della Suprema Corte di Cassazione, le prestazioni che gravano sul Fondo di garanzia hanno una natura previdenziale autonoma; ne consegue che l’accesso alle prestazioni è subordinato esclusivamente all’esistenza delle condizioni di cui all’art.2, D.Lgs. 27 gennaio 1992, n.80 .
Tra le conseguenze favorevoli dell’immediata esigibilità del trattamento di fine rapporto, figurano l’aumento del valore economico del ramo d’azienda ceduto nonché l’acquisizione, da parte del cessionario, di una struttura libera da un debito rilevante.
Da ultimo, tra le misure volte a favorire la cessione delle aziende in crisi si rileva che in base al comma 6 dell’art.47, i lavoratori che non sono passati alle dipendenze del cessionario hanno diritto di precedenza nelle assunzioni effettuate entro un anno dall’avvenuto trasferimento d’azienda ed ai medesimi, in caso di successiva assunzione da parte del medesimo acquirente, non si applica l’art. 2112 c.c. .
5. Considerazioni finali
In conclusione, la rilevanza della materia riguardante l’effetto circolatorio dell’impresa in crisi con riguardo ai profili giuridici connessi ai rapporti di lavoro e della relativa gestione si evince chiaramente dai ripetuti interventi che, nel corso degli ultimi anni, hanno coinvolto non solo il Legislatore e la Giurisprudenza europei (con l’emanazione di numerose Direttive e la promulgazione di numerose sentenze da parte della CGUE), ma anche il Legislatore domestico, il quale ha costantemente cercato di adeguare il proprio ordinamento ai principi e ai vincoli derivanti dal diritto eurocomunitario, inserendo, nell’alveo dei principi generali, disposizioni volte a facilitare la conservazione dell’occupazione quale valore dell’azienda in crisi.
Alla luce dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale intervenuta (sia pure qui solo sommariamente richiamata) è possibile sostenere (come peraltro già rilevato dagli autorevoli Autori prim citati) che, a differenza del passato (caratterizzato da un contrasto tra il diritto del lavoro e quello fallimentare), sia emersa – in fase di redazione e di modifica del CCII - l’esigenza di un bilanciamento tra gli interessi della categoria dei creditori da un lato, e della categoria dei lavoratori dell’altro.
Più precisamente, a giudizio di chi scrive risulta manifesto come il sistema concorsuale delineato dal Codice della Crisi sia improntato alla residualità della prospettiva liquidatoria, privilegiando invece la continuità aziendale e la possibilità di una ripresa delle attività. Infatti, laddove l’impresa venga risanata attraverso uno degli strumenti (più o meno flessibili) messi a disposizione dall’ordinamento, essa potrà generare valore non più soltanto per i creditori ma anche per il sistema economico nel suo complesso, addirittura e soprattutto attraverso la salvaguardia dell’occupazione.
Tale impostazione trova conferma nel favor che permea l’intero Codice della Crisi a favore delle procedure di risanamento rispetto alla liquidazione giudiziale, più volte definita dal CCII come residuale, nonché attraverso il riconoscimento del valore della continuità, non tanto come finalizzata a sé stessa, bensì – come esplicitamente ribadito dal CCII – quale strumento di tutela dell’occupazione.
Da queste prime considerazioni è emerso come lo sforzo del Legislatore nell’impianto normativo attuale sia stato quello di perseguire una finalità diversa rispetto a quella che aveva ispirato la precedente disciplina, rendendo l’occupazione e la sua eventuale tutela (nel rispetto di quella della massa dei creditori) uno dei mezzi per raggiungere la massimizzazione dell’attivo fallimentare (attraverso la circolazione di compendi aziendali dotati di un maggiore valore o comunque più “leggeri” con riferimento agli obblighi verso i propri dipendenti – nei limiti consentiti dalla attuale legislazione).
Solo i futuri sviluppi normativi, giurisprudenziali e dottrinali, nonché la concreta applicazione pratica nel contesto della crisi d’azienda e delle vicende circolatorie in questa attuate, consentiranno di comprendere, senza riserva, se si sia effettivamente affermata una nuova prospettiva nell’impianto della legislazione di settore e se questa consenta un effettivo beneficio per i soggetti interessati nonché, primi fra tutti, per i compendi aziendali in crisi.