TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
Ordinanza del Tribunale di Belluno n. 12/2021
Ordinanza del Tribunale di Messina del 12/12/2020
1. Premessa.
Conclusa la fase iniziale dell’emergenza in cui imprese e lavoratori hanno dovuto fronteggiare il diffondersi del Covid-19 alla ricerca di una nuova razionalità organizzativa degli ambienti di lavoro per resistere ad un nuovo rischio per la salute e la sicurezza , si pone ora un problema inedito, reso urgente dalla diffusione del primo vaccino anti SARS-CoV-2, relativo al binomio, già di per sé oscuro e fragile, salute e lavoro.
Il prendere consistenza di un atteggiamento obiettore rispetto al vaccino da parte della popolazione ha condotto all’emersione, nell’arena politica, costituzionale, sindacale e giuslavoristica, di un acceso dibattito sulla possibile obbligatorietà del vaccino, almeno in alcuni contesti professionali, e sulle conseguenze, nelle relazioni con il datore di lavoro pubblico e privato, del rifiuto del lavoratore a sottoporvisi. Le soluzioni prospettate sono state le più varie, desunte tutte dai principi fondamentali dell’ordinamento ed imposte dall’assenza – quantomeno iniziale – di una puntuale norma positiva, sopraggiunta solo con l’articolo 4 del d.l. n. 44 del 1° aprile 2021.
Per una volta, non si sono delineati due schieramenti nettamente contrapposti, ma si sono affiancate soluzioni diverse e sfumate , per la delicatezza e la complessità della materia, che si pone al crocevia di diritti fondamentali e di rango costituzionale, si intreccia di diritti e doveri, di situazioni giuridiche a dimensione privatistica e pubblicistica, individuali e collettive, insieme .
La sfida di questo tempo che il giurista è chiamato ad affrontare è fornire risposta e regolamentazione ai drammi economici, sociali e sanitari che si susseguono con una velocità disarmante, senza avere il tempo di porsi le domande giuste, di individuare quale sia l’enigma profondo che si cela dietro alle singole questioni.
Lo scenario attuale si presenta variamente articolato, composto da un obbligo di legge selettivo e temporalmente delimitato, da un onere civico generalizzato e da impegni politici e imprenditoriali a promuovere la campagna vaccinale, nell’ottica di raggiungere le più alte percentuali possibili di vaccinati per la tutela della salute collettiva e per la sana ripresa delle attività produttive.
Il quadro giuridico e normativo che oggi ci accingiamo a commentare è stato costruito grazie al contributo attivo fornito dal vivace dibattito dottrinale sorto, dai dati di scetticismo alla vaccinazione denunciati dai Presidenti regionali tra gli operatori di interesse sanitario, da circolari, messaggi e risposte degli Enti previdenziali e assicurativi del lavoro, oltre che del Garante per la privacy, e dalle prime pronunce giurisprudenziali di merito: ogni formante dell’ordinamento ha svolto il suo ruolo per consentire al sistema di fornire delle risposte utili e una regolamentazione al fluire così veloce dei drammi economici, sociali e sanitari che la pandemia comporta.
2. Il quadro normativo emergenziale entro cui si inscrive la questione.
Dopo il contegno inizialmente assunto sulla base del quale, diversamente dalle scelte operate in passato per situazioni meno drammatiche rispetto a quella pandemica in corso , si era optato per la sola via della raccomandazione e della persuasione , lasciando nell’incertezza applicativa gli operatori del diritto, le parti sociali, gli enti previdenziali ed assistenziali e, soprattutto, i datori di lavoro , l’Esecutivo si è determinato a regolamentare positivamente la vaccinazione anti Sars-CoV-2, e i suoi risvolti sul piano del rapporto di lavoro, per gli addetti a quelle professioni aventi un rischio di contagio particolarmente qualificato.
L’intervento normativo, auspicato da più parti, ora è attuale e, oltre a prestarsi ad un test di legittimità alla luce della giurisprudenza costituzionale sulla portata dell’art. 32 Cost., offre risposta ad alcuni degli interrogativi ripercorsi e fornisce importanti indicazioni per l’inquadramento di ordine generale della questione giuridica e delle sue implicazioni pratiche nella gestione ordinaria del personale dipendente e della disponibilità del vaccino anti Covid.
In particolare, e volgendo quindi in primo luogo lo sguardo alle disposizioni esistenti, primaria importanza rivestono, in termini generali, i principi e diritti fondamentali costituzionali di cui agli articoli 2, 3 e 32 della Carta, nonché, e di conseguenza, sul piano del diritto del lavoro, le normative di cui agli articoli 2087 del codice civile, 40 e seguenti e 279 del d.lgs. n. 81/2008, e la disciplina emergenziale dettata per il contrasto alla pandemia da Covid-19, contenuta nell’articolo 42, comma 2, del d.l. n. 18/2020 convertito nella legge n. 27/2020, e 83 del d.l. n. 34/2020, convertito con modificazioni dalla l. n. 77/2020 oltre che nel Piano strategico-operativo nazionale di preparazione e risposta a una pandemia influenzale (PanFlu 2021-2023), di cui all’Accordo del 25 gennaio 2021 della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano pubblicato nella G.U. Serie Generale, n. 23 del 29 gennaio 2021, nel Piano Nazionale della Prevenzione 2020-2025 e nel Piano Nazionale della Prevenzione Vaccinale, del gennaio 2017, e nei due Protocolli del 6 aprile 2021, in attesa di essere recepiti con apposito decreto, completi delle Indicazioni ad interim agli stessi allegate.
Ponendosi, quindi e innanzitutto, nella prospettiva della normativa emergenziale, cuore della disciplina oggetto di analisi, occorre rilevare come il legislatore dell’emergenza abbia dettato prescrizioni obbligatorie per il contenimento della pandemia e la prevenzione della sua diffusione ponendo adempimenti e divieti generalizzati, basati sul principio di solidarietà collettiva, e prevedendo diritti, obblighi e responsabilità in capo a soggetti specifici quali, ai nostri fini, i datori di lavoro, i lavoratori, gli Istituti assicuratori pubblici .
Le misure di prevenzione previste dal Testo unico della sicurezza sono state integrate da ulteriori misure, poste a carico sia dei datori di lavoro che dei lavoratori, suggerite dalla esperienza e dalla scienza, ai sensi dell’art. 2087 c.c., codificate nei protocolli di sicurezza concordati tra le parti sociali per la prosecuzione e messa in sicurezza dell’attività produttiva, resi obbligatori dal legislatore con i DPCM del 10 e 26 aprile 2020, aggiornati nell’aprile 2021 con un nuovo testo , che oltre a recepire le best practices aziendali che hanno trovato costante applicazione in questi mesi , ha confermato il principio fondamentale secondo cui la pandemia ha natura di rischio biologico generico e, pertanto, il contrasto al virus viene attuato mediante provvedimenti della pubblica autorità, escludendosi di conseguenza la doverosità, per i datori di lavoro, di inserire il rischio da contagio da Sars-CoV-2 nella valutazione interna aziendale e di aggiornare i relativi DVR . Il legislatore ha poi disposto, per definire e ragionevolmente limitare la responsabilità del datore, che l’osservanza dei protocolli anzidetti integra l’adempimento delle prescrizioni dell’art. 2087 ai fini della responsabilità civile e penale del datore di lavoro (ex art. 29-bis, d.l. n. 23/2020, come convertito, con modifiche, dalla legge n. 40 del 2020).
Tra le varie misure di sicurezza previste nei protocolli non era e non è tuttora compresa la vaccinazione anti Covid delle lavoratrici e dei lavoratori, che è ora lì contemplata solamente come strumento che «realizza il duplice obiettivo di concorrere ad accelerare e implementare a livello territoriale la capacità vaccinale anti SARS-CoV-2/Covid-19 e a rendere, nel contempo, più sicura la prosecuzione delle attività commerciali e produttive sull’intero territorio nazionale, accrescendo il livello di sicurezza degli ambienti di lavoro», ed è invece stata resa obbligatoria ex lege solamente per gli esercenti professioni di interesse sanitario. Si pone, pertanto, così, il problema di individuare il suo ruolo nel rapporto di lavoro del personale diverso da quello obbligato a sottoporvisi e di vagliare, per quest’ultimo, la legittimità costituzionale della disposizione normativa.
3. Il vaccino come diritto, onere, obbligo: le indicazioni dalla giurisprudenza costituzionale.
In tempi anche recenti, sono pervenute all’attenzione della Corte costituzionale numerose questioni di legittimità, per contrasto alle disposizioni di cui agli articoli 2, 3, comma 2, e 32 della Carta, relative alla normativa vaccinale. Dall’analisi di questa giurisprudenza è possibile individuare quali sono i criteri che orientano gli operatori del diritto e il decisore politico nell’interpretazione che, di quelle norme, dev’essere seguita.
In particolare, con la sentenza n. 268 del 2017, la Corte ha fornito una serie di indicazioni e raccomandazioni utili anche, oggi, a correttamente inquadrare il tema della vaccinazione anti-Covid e della sua possibile ricostruzione in chiave di obbligatorietà o meno.
La Consulta ha, innanzitutto, precisato come sia la stessa costruzione dell’articolo 32 a rappresentare l’ambivalenza della tutela costituzionale della salute, insieme diritto all’autodeterminazione del singolo e interesse della collettività, diritto a preservare lo stato di salute del singolo e di tutti gli altri, ed è proprio questo ulteriore e generale scopo a giustificare la compressione dell’autodeterminazione individuale quando si rendano obbligatori per legge specifici trattamenti sanitari .
Conseguentemente, quali trattamenti sanitari aventi essi stessi quella duplice finalità, le vaccinazioni possono essere imposte come obbligatorie o raccomandate e la tecnica dell’obbligatorietà ovvero della raccomandazione «possono essere sia il frutto di concezioni parzialmente diverse del rapporto tra individuo e autorità sanitarie pubbliche, sia il risultato di diverse condizioni sanitarie della popolazione di riferimento, opportunamente accertate dalle autorità preposte». Nel primo caso, spiega la Corte, la libera determinazione individuale viene diminuita attraverso la previsione di un obbligo assistito da una sanzione. Questa soluzione è rimessa alla decisione delle autorità sanitarie pubbliche e, quando sia fondata su obiettive e riconosciute esigenze di profilassi, «non è incompatibile con l’art. 32 Cost. se il trattamento obbligatorio sia diretto non solo a migliorare o preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche quello degli altri», per la ratio stessa dell’articolo 32. Nel secondo caso, le autorità sanitarie optano per un appello all’adesione spontanea degli individui a un programma di politica sanitaria vaccinale e preventivo. La tecnica della raccomandazione «esprime maggiore attenzione all’autodeterminazione individuale (o, nel caso di minori, alla responsabilità dei genitori) e, quindi, al profilo soggettivo del diritto fondamentale alla salute, tutelato dal primo comma dell’art. 32 Cost., ma è pur sempre indirizzata allo scopo di ottenere la migliore salvaguardia della salute come interesse (anche) collettivo». Qualunque sia la tecnica prescelta dalle autorità sanitarie per promuovere e diffondere un vaccino, ferma la differente impostazione delle due, quel che rileva, nel ragionamento della Corte, per la decisione delle questioni di legittimità costituzionale, è l’obiettivo essenziale che entrambe perseguono nella profilassi delle malattie infettive: ossia il «comune scopo di garantire e tutelare la salute (anche) collettiva attraverso il raggiungimento della massima copertura vaccinale».
Entrando, pertanto, in questa prospettiva, delineata come l’unica legittima attraverso la quale inquadrare correttamente i trattamenti sanitari vaccinali ex art. 32 Cost., ed incentrata sulla salute quale interesse (anche) obiettivo della collettività, perde di significato la differenza tra obbligo e raccomandazione: «l’obbligatorietà del trattamento vaccinale è semplicemente uno degli strumenti a disposizione delle autorità sanitarie pubbliche per il perseguimento della tutela della salute collettiva, al pari della raccomandazione. I diversi attori (autorità pubbliche e individui) finiscono per realizzare l’obiettivo della più ampia immunizzazione dal rischio di contrarre la malattia indipendentemente dall’esistenza di una loro specifica volontà di collaborare: “e resta del tutto irrilevante, o indifferente, che l’effetto cooperativo sia riconducibile, dal lato attivo, a un obbligo o, piuttosto, a una persuasione o anche, dal lato passivo, all’intento di evitare una sanzione o, piuttosto, di aderire a un invito” (sentenza n. 107 del 2012)» .
Chiarito, quindi, che nell’esecuzione del patto di solidarietà costituzionalmente previsto tra individuo e collettività, un obbligo, generalizzato o selettivo, a vaccinarsi può essere autoritativamente imposto, si rivela opportuno valutare quali sono le indicazioni di principio che allo stato sono già state rese quando si voglia porre un tale obbligo.
La prima questione affrontata riguarda la legittimità di un obbligo di sottoposizione a trattamento sanitario e le condizioni in presenza delle quali lo si può ritenere legittimo, ragionevole e proporzionale. Nella già ricordata sentenza n. 268 del 2017, la Corte costituzionale evidenzia come, nella scelta di politica sanitaria, l’opzione per l’obbligo o la calda raccomandazione di un vaccino dipenda, anche, dal contesto e dal grado di pericolo per la salute pubblica cui la renitenza a sottoporvisi esporrebbe.
Ed è questa l’essenza del ragionamento che la stessa Consulta sviluppa nella sentenza n. 5 del 2018 in relazione all’introduzione dell’obbligo di sottoporre a dieci vaccinazioni i figli minori (d.l. n. 73/2017), convertito con modifiche dalla legge n. 119/2017): proprio partendo dall’analisi del dato contestuale della preoccupante flessione delle coperture vaccinali, alimentata anche dal diffondersi della convinzione (falsa perché «mai suffragata da evidenze scientifiche») che le vaccinazioni siano inutili, se non addirittura nocive, la Corte giustifica il disposto rafforzamento della cogenza degli strumenti della profilassi vaccinale, qualificandolo un intervento «non irragionevole allo stato attuale delle condizioni epidemiologiche e delle conoscenze scientifiche».
In questo contesto, si mette in luce anche come, ciononostante, il legislatore abbia ritenuto di dover preservare un adeguato spazio per l’autodeterminazione e la costruzione di un rapporto con i cittadini basato sull’informazione, sul confronto e sulla persuasione, laddove ha previsto che, in caso di mancata osservanza dell’obbligo vaccinale, la legge delinea un procedimento volto in primo luogo a fornire ai genitori (o agli esercenti la potestà genitoriale) ulteriori informazioni sulle vaccinazioni e a sollecitarne l’effettuazione . Solo al termine di tale procedimento, e previa concessione di un adeguato termine, potranno essere inflitte le sanzioni amministrative previste in capo agli esercenti la potestà genitoriale sul minore, peraltro assai mitigate in seguito agli emendamenti introdotti in sede di conversione. Vi è anche un altro istituto che mitiga la previsione dell’obbligo e lo coordina con le esigenze di tutela della salute individuale e collettiva e di garanzia dell’autodeterminazione individuale: il sistema di monitoraggio periodico ex art. 1, comma 1-ter, del decreto legge n. 73, nella versione definitiva, il quale consente di rivalutare e riconsiderare la scelta attraverso il monitoraggio della dinamica evolutiva dei livelli di copertura e della incidenza delle patologie virali, arrivando fino alla cessazione della obbligatorietà di alcuni vaccini e al ritorno alla raccomandazione. Gli elementi di flessibilizzazione previsti dalla normativa denotano, a dire della Corte, «che la scelta legislativa a favore dello strumento dell’obbligo è fortemente ancorata al contesto ed è suscettibile di diversa valutazione al mutare di esso», come se l’imposizione dell’obbligo di un trattamento sanitario vada considerata quale extrema ratio, misura necessaria ad aumentare i livelli di tutela della salute individuale e collettiva, senza comprimere in misura assoluta e senza scadenza la libertà di autodeterminazione individuale.
L’altro aspetto su cui le indicazioni della Corte appaiono piuttosto chiare e consolidate riguarda l’individuazione del soggetto legittimato dalla Costituzione ad imporre un tale obbligo sanitario. Con le sentenze n. 5 del 2018 e 137 del 2019 è stato infatti spiegato come lo stesso debba necessariamente essere disposto sulla base di una legge o di un atto avente forza di legge statale e come non sia sufficiente una fonte di rango regionale. La materia vaccinale e dei trattamenti sanitari obbligatori, infatti, si rivela essere particolarmente delicata anche perché si pone al crocevia di varie materie sensibili, tutte di competenza statale.
Quanto invece alla possibilità di desumere un obbligo vaccinale nuovo dal sistema legislativo primario già vigente la Corte costituzionale non ha fornito risposta, evitando di trattare specificamente questo punto. Nella stessa sentenza n. 137 del 2019, nonostante in quella sede si cerchi di farle dire più di quanto abbia in realtà detto, la Corte ha lambito tale questione, limitandosi ad un esame selettivo della normativa regionale impugnata per evidenziare come la disciplina regionale non abbia introdotto nuove regole in materia sanitaria e di tutela della salute, quanto piuttosto abbia dettato istruzioni sull'organizzazione dei servizi sanitari della Regione, proprio evitando così di esaminare la questione centrale, ovverosia se un obbligo sanitario possa essere desunto dalle leggi vigenti e da una lettura sistematica e integrata dell’ordinamento .
La conclusione cui pare potersi giungere dall’analisi della consolidata giurisprudenza costituzionale è che la Corte chiede al legislatore di basarsi sulla scienza e sulla sua continua evoluzione per stabilire quale mezzo impiegare per promuovere la somministrazione di massa di un trattamento sanitario a tutela della salute individuale e collettiva, insieme, perché sono solo la ricerca scientifica e le sue conquiste ad assicurare il giusto ed quo contemperamento tra libertà e solidarietà, nel rapporto tra libertà ed autorità in attuazione del patto di solidarietà costituzionale. Al contempo, la Corte è altrettanto chiara nel ritenere che sussiste, ed è bene che sussista, un margine di discrezionalità politica nella scelta delle politiche sanitarie e nella valutazione del contesto, sociale ed economico, e del rischio, sulla base della consapevolezza che può esservi discrasia tra la normatività medica e quella giuridica.
4. Le pronunce contraddittorie fornite dalla giurisprudenza di merito.
Tra le ultime settimane del 2020 e il primo trimestre del 2021, i primi casi di ricorsi cautelari d’urgenza promossi da lavoratori che hanno subito provvedimenti datoriali a vario titolo sanzionatori per non essersi sottoposti al vaccino anti Covid ovvero per non aver ottemperato a prescrizioni di carattere sanitario disposte dall’azienda sono arrivati a decisione.
Le ordinanze cautelari pronunciate hanno fatto registrare un andamento ondivago della giurisprudenza di merito, essendosi avute sia decisioni che negavano in radice la possibilità, per il datore, di adottare provvedimenti sanzionatori reattivi al rifiuto dei propri dipendenti di sottoporsi alla vaccinazione anti Covid, sia decisioni di segno totalmente contrario.
Pare opportuno analizzare le due pronunce su cui si è concentrato il dibattito tra l’opinione pubblica per mettere in evidenza quali sono le ragioni poste a fondamento delle due diverse posizioni.
4.1. L’ordinanza cautelare del Tribunale di Messina: la vicenda contenziosa.
Con l’ordinanza pronunciata lo scorso 12 dicembre 2020 dal Giudice del Lavoro di Messina , il dibattito ha fatto ingresso nelle aule di giustizia e la decisione resa ha riconosciuto piena tutela al diritto di autodeterminazione del lavoratore ai trattamenti sanitari, senza, però, al contempo disconoscere la rilevanza della situazione quanto meno sul piano precauzionale e preventivo nei confronti della posizione giuridica di garanzia del datore di lavoro.
Questa la vicenda processuale. Alcuni lavoratori dipendenti dell’Azienda ospedaliera universitaria di Messina ricorrevano al Giudice del lavoro per vedersi riconoscere il loro diritto di non sottoporsi a vaccinazione antinfluenzale e anti pneumococcica, il cui obbligo era stato sancito con due note aziendali adottate in ottemperanza di un decreto assessoriale che aveva rese obbligatorie dette vaccinazioni per quanti prestano attività lavorativa in ambito sanitario. Contestualmente, i ricorrenti proponevano istanza cautelare d’urgenza per la sospensione dell’efficacia degli atti amministrativi presupposti posto che la mancata adesione alla campagna vaccinale predisposta a livello regionale avrebbe comportato conseguenze immediate nel rapporto di lavoro dei ricorrenti. In particolare, il decreto regionale poneva la avvenuta vaccinazione quale requisito per l’idoneità all’espletamento delle mansioni, ai sensi dell’art. 41, comma 6, del d.lgs. n. 81/2008, e la nota aziendale attuativa prevedeva la trasmissione dell’elenco dei sanitari non aderenti alla campagna di prevenzione al medico competente per l’accertamento dell’inidoneità al lavoro a far data dalla trasmissione stessa e fino alla conclusione del periodo di presumibile intensità del fenomeno influenzale – ovvero, fino a tutto il mese di febbraio 2021 –.
Le contrapposte tesi propugnate in giudizio dai lavoratori e dall’Assessorato regionale siciliano – l’Azienda ospedaliera datrice di lavoro è rimasta contumace – si sono concentrate sulla legittimità formale della previsione di un tale obbligo vaccinale. Mentre i lavoratori denunciavano il difetto di attribuzione dell’Assessorato regionale, ritenendo che l’individuazione dei trattamenti sanitari obbligatori sia materia coperta da riserva di legge statale ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 32 e 117 Cost., l’ente pubblico regionale rispondeva ritenendo la misura precauzionale adottata giustificata e proporzionata in relazione ad impellenti ragioni di salute pubblica (si richiama, in primo luogo, la necessità di disporre, in alcuni casi la raccomandazione ed in altri, come quello del caso de quo, l’obbligo di vaccinazione, in ragione delle alte probabilità di una concomitante circolazione di virus influenzali e di SARS-CoV-2 e, in secondo luogo, gli effetti positivi della vaccinazione, individuati nella possibilità di rendere più agevole la diagnosi differenziale tra le due patologie infettive e diminuire così la pressione sul servizio sanitario) e legittima, perché consentita dalle previsioni dell'art. 32, comma 3, della legge n. 833/1978 che riconoscono al Presidente della Giunta regionale o al Sindaco il potere di emanare, in materia di sanità pubblica e di polizia veterinaria, ordinanze di carattere contingibile ed urgente nell’ambito territoriale di riferimento ed in linea con le direttive emergenziali di cui al d.l. n. 19/2020, convertito in legge n. 35/2020, che autorizza le Regioni ad introdurre misure più restrittive di quelle statali ai fini del contenimento del contagio da coronavirus.
Il Giudice del lavoro di Messina ha risolto le questioni controverse ritenendo il provvedimento amministrativo impugnato illegittimo per un duplice motivo: sia perché, e in primo luogo, «travalicando i limiti imposti dagli artt. 32 Cost. e 117 Cost., ha reso obbligatorio per gli operatori sanitari, il vaccino anti influenzale che invece, a livello nazionale è raccomandato e non ritenuto obbligatorio», sia perché l’atto assessoriale è stato adottato «in contrasto con i princìpi del riparto dei poteri tra l’apparato amministrativo regionale e l’organo legislativo regionale», come espressi dall’art. 32 della legge n. 833/1978.
4.1.1. La posizione contraria del Giudice del lavoro di Messina alla obbligatorietà del vaccino.
L’ordinanza di Messina risponde al dibattito con argomentazioni di carattere generale pur sfiorando solamente il tema della possibile obbligatorietà del vaccino contro il Covid nell’ambito del rapporto di lavoro, nella misura in cui sono pronunciate in relazione alla vaccinazione anti influenzale comune.
La decisione sviluppa, en passant, il tema dell’intersecazione della disciplina dell’obbligo di sicurezza gravante sul datore di lavoro con la condizione della sottoposizione o meno a vaccini antivirali in contesti professionali a rischio qualificato di contagio, per concentrarsi piuttosto «sull’asseribile incidenza del potere amministrativo sul diritto costituzionale alla salute, nell’esplicazione dell’incoercibilità del consenso ai trattamenti sanitari».
Il ragionamento proposto dal Giudice si articola per punti consequenziali partendo dalla constatazione che il provvedimento aziendale dell’Ospedale di Messina che attuava il decreto assessoriale regionale debba essere considerato una scelta quanto mai opportuna, non censurabile e obbligata del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., pena la sua responsabilità per avere colposamente violato una norma precauzionale vigente, sia pure di rango secondario.
Ciò posto il Tribunale ritiene comunque che il provvedimento aziendale, nell’imporre un requisito di idoneità del lavoratore, non possa definirsi ragionevole e proporzionato per l’illegittimità – accertata in un procedimento a trattazione sommaria – della decisione assessoriale.
Nell’ordinanza de qua, pur riconoscendosi che gli operatori sanitari e il personale di laboratorio fanno parte delle categorie maggiormente a rischio, per le quali i piani nazionali vaccinali hanno sempre attestato questo maggiore grado di esposizione a malattie infettive prevenibili con programmi ben impostati di vaccinazione – ritenuti capaci di ridurre in modo sostanziale i rischi sia di acquisire pericolose infezioni occupazionali, sia di trasmettere patogeni ad altri lavoratori e soggetti con cui i lavoratori possono entrare in contatto –; sono stati indicati come destinatari privilegiati di una serie di specifiche vaccinazioni al fine di un adeguato intervento di immunizzazione attiva, ritenuto fondamentale non soltanto per la protezione del singolo operatore, ma soprattutto per la garanzia nei confronti dei pazienti, ai quali l’operatore potrebbe trasmettere l’infezione determinando gravi danni e persino casi mortali; rappresentano una categoria target per la vaccinazione antinfluenzale, ai fini della protezione del singolo, della riduzione della diffusione dell'influenza a gruppi vulnerabili di pazienti e del mantenimento dell’erogazione dei servizi sanitari durante epidemie influenzali; ciononostante si sostiene che l’assenza di una norma di legge statale che renda espressamente obbligatorie specifiche vaccinazioni precluda tout cour la possibilità di ritenere sussistente un tale obbligo in capo ai dipendenti. A sostegno di ciò vi sarebbero le disposizioni dei piani nazionali vaccinali e delle circolari ministeriali annuali in tema che prevedono solo una forte raccomandazione e la sentenza n. 137 del 2019 della Corte costituzionale, già richiamata, per la quale, sulla base del combinato disposto degli artt. 32 e 117 Cost., la competenza legislativa in materia sanitaria spetta allo Stato, unico legittimato ad imporre trattamenti sanitari.
Un ultimo punto della decisione merita di essere segnalato: il Giudice messinese ritiene che l’attività di controllo svolta dal datore di lavoro per il tramite del medico competente e la prevista trasmissione dell’elenco dei lavoratori che non aderiscono alla campagna vaccinale al medico competente, in accompagnamento alla richiesta di visita per gli accertamenti di cui all’art. 41 d.lgs 81/2008, non sia pregiudizievole del diritto alla privacy dei lavoratori «in quanto è diretta esplicazione del diritto del datore di lavoro, in quanto obbligato all’adozione di misure di prevenzione del rischio professionale, di richiedere al professionista medico l’accertamento dell’idoneità alle mansioni».
Come è chiaro, nella prima occasione in cui la questione dell’obbligatorietà vaccinale è approdata nelle aule di giustizia, la giurisprudenza ha assunto una posizione contraria alla possibilità di ritenere sussistente un tale obbligo sulla base delle disposizioni già vigenti, a massima protezione della libertà di autodeterminazione dell’individuo; una posizione, però, che si presta a qualche riflessione critica.
In primo luogo, l’ordinanza pare essere contraddittoria nella misura in cui esclude l’introduzione di un obbligo a vaccinarsi se non per legge dello Stato, ma, senza prevedere quali strumenti il datore di lavoro possa adoperare e come possa gestire una tale situazione, riconosce a chiare lettere e in più punti la doverosità di considerare, nell’organizzazione del lavoro e nell’attuazione della sua posizione di garanzia verso la salute e la sicurezza dei dipendenti e di tutti i terzi che entrino in contatto con quelli, il fattore vaccinale, ritenendo non irrilevante, ai fini della sua responsabilità, anche colposa, l’accertamento e il controllo sulla renitenza o la sottoposizione a vaccino dei lavoratori. E se ciò viene sostenuto per il vaccino antinfluenzale comune, tanto più vale e non può non valere per il vaccino anti Covid.
In secondo luogo, l’ordinanza si basa su una analisi del quadro normativo parziale, non considerando la direttiva europea n. 739 del 2020, già recepita con legge italiana, né l’intero sistema di sicurezza sul lavoro e, in ultima analisi, vuole far dire alla Corte costituzionale più di quanto abbia in effetti detto.
4.2. L’ordinanza del Tribunale di Belluno.
Di segno contrario, invece, si segnala l’ordinanza, estremamente sintetica, ma dai forti e chiari contenuti motivazionali, pronunciata dal Giudice del lavoro di Belluno in data 19 marzo 2021 che ha respinto il ricorso cautelare promosso da una serie di operatori socio sanitari che avevano impugnato la decisione datoriale di sospendere il rapporto di lavoro, a seguito del rifiuto, dai medesimi espresso, di sottoporsi alla dose del vaccino immunizzante contro il Covid-19 .
Più in particolare, il management aziendale delle strutture sanitarie – c.d. RSA – presso cui prestavano la propria opera i ricorrenti, preso atto della esternata indisponibilità vaccinale dei lavoratori e della dichiarazione di sopravvenuta inidoneità al servizio formulata dal medico competente presso il quale i dipendenti erano stati sottoposti a visita, aveva optato per la sospensione del rapporto di lavoro con annessa mancata erogazione stipendiale, in considerazione dell'intervenuta «impossibilità di svolgere la mansione lavorativa prevista» da parte di quei dipendenti.
I lavoratori no vax delle RSA sospesi avevano, pertanto, adìto, con ricorso ex art 700 c.p.c., il Giudice del Lavoro, lamentando l'illegittimità della decisione datoriale ed invocandone la stigmatizzazione giudiziale, con richiesta di reintegrazione immediata nel posto di lavoro e nella retribuzione, sul presupposto della incomprimibilità della libertà di scelta delle terapie prevista dall'ordinamento italiano e in particolar modo dalla Costituzione.
4.2.1. La tesi sostenuta dal Giudice del lavoro di Belluno sull’obbligatorietà del vaccino.
Il Tribunale di Belluno – inspiegabilmente senza condannare i ricorrenti alle spese di lite – con una pronuncia che, per alcuni versi, può definirsi pilota rispetto all’obbligo di legge introdotto in aprile, ha disposto il rigetto del ricorso, evidenziando come «la permanenza dei ricorrenti nel luogo di lavoro comporterebbe per il datore di lavoro la violazione dell'obbligo di cui all'art. 2087 c.c. il quale impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica dei suoi dipendenti» e come sia ormai «notorio» che il vaccino anti Sars-CoV-2 costituisce una «misura idonea a tutelare l'integrità fisica degli individui a cui è somministrato, prevenendo l'evoluzione della malattia».
Altrettanto «notorio» viene definito il fatto che le mansioni di infermiere e operatore sanitario comportino un alto rischio di contagio per sé e per gli altri, con conseguente legittimità della loro collocazione unilaterale in ferie, quale misura presa dal datore di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., poiché tale rischio viene a configurare quelle «esigenze dell’impresa» che attribuiscono al datore di lavoro stesso la facoltà di stabilire il tempo di fruizione delle ferie stesse, ai sensi dell’art. 2019 c.c. .
Il cuore della pronuncia in commento, pertanto, si incentra sulla compiuta valutazione di primazia, fatta propria dal Giudice veneto, della posizione di garanzia che incombe sul datore di lavoro rispetto alla tutela non mediata del diritto alla libertà vaccinale ad opera del singolo, quale corollario attuativo del disposto costituzionale di cui al secondo comma dell'art. 32 Cost.
Una impostazione, questa, perfettamente speculare a quella assunta dal Giudice messinese e che ha trovato seguito legislativo, come si vedrà in appresso.
5. L’obbligo vaccinale anti-Covid per il personale di interesse sanitario ex art. 4 d.l. n. 44/2021.
Con il decreto legge n. 44 del 2021 il legislatore si è preoccupato di mettere in sicurezza la campagna vaccinale con l’introduzione, da una parte, del c.d. scudo penale in favore dei vaccinatori, all’articolo 3 – per rassicurare il personale medico e paramedico coinvolto nella operazione di immunizzazione di massa – e, dall’altra, dell’obbligo di vaccinazione per tutti gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario .
In ottemperanza alle indicazioni fornite dalla giurisprudenza costituzionale anche di recente nell’attività di interpretazione e applicazione dell’articolo 32 Cost. – su cui vedi supra –, il Legislatore ha imposto, con un atto avente forza di legge statale, un obbligo vaccinale non indiscriminato e generalizzato, ma selettivo, individuando come destinatari della previsione solamente i lavoratori che prestano servizio in settori connotati da una percentuale di rischio di contagio da Covid particolarmente alta , causalmente e temporalmente delimitato, prevedendosene la cogenza «in considerazione della situazione di emergenza epidemiologica da SARS-CoV-2, fino alla completa attuazione del piano» vaccinale «e comunque non oltre il 31 dicembre 2021» all’espresso fine «di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza». Da un altro e complementare punto di vista, la nuova disciplina si conforma a Costituzione nella misura in cui esonera dall’obbligo di vaccinazione anti Covid tutti coloro i quali attestino e documentino la sussistenza di condizioni cliniche capaci di esporli a pericolo per la propria salute nel caso di inoculazione del trattamento : il vaccino imposto per legge, infatti, a detta della Consulta deve non solo tutelare lo stato di salute del vaccinato e preservare quello degli altri, ma non deve nemmeno incidere negativamente sulla salute di chi vi si sottopone, eccezion fatta per quelle sole conseguenze che appaiono normali e tollerabili . Tutti i requisiti già visti e chiariti dalla giurisprudenza sono stati, pertanto, rispettati nell’attuazione della riserva di legge prevista dall’articolo 32 Cost. .
Quanto alle sanzioni previste nel caso di inadempimento ingiustificato al detto obbligo, non sono state coniate ipotesi di reato né sono state previste sanzioni amministrative di tipo pecuniario – della cui efficacia dissuasiva si dubita –, ma sono state articolate misure reattive e sanzionatorie di natura esclusivamente lavoristica, da attuarsi nell’ambito di una dettagliata procedura operativa affidata alla collaborazione tra ordini professionali, datori di lavoro, regioni ed aziende sanitarie locali .
Innanzitutto, la vaccinazione è espressamente definita requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative rese dai soggetti obbligati, con la conseguenza che la sua mancanza determina la sopravvenuta e temporanea impossibilità di svolgere mansioni che implicano contatti interpersonali o che comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da Sars-CoV-2 .
Pertanto, il datore di lavoro che riceva dall’azienda sanitaria la comunicazione della accertata inosservanza dell’obbligo vaccinale da parte del lavoratore è tenuto ad adottare i provvedimenti dovuti: assegnazione del lavoratore – ove possibile – a mansioni diverse che non implichino rischi di diffusione del contagio; adibizione anche a mansioni inferiori con correlata decurtazione del trattamento retributivo, parametrato al lavoro effettivamente svolto; sospensione dal lavoro e dalla retribuzione fino all’assolvimento dell’obbligo vaccinale ovvero fino al completamento del piano vaccinale nazionale e comunque non oltre il 31 dicembre 2021. Queste prescrizioni realizzano un’evidente deroga alle regole generali che governano la gestione ordinaria del rapporto di lavoro in funzione chiaramente sanzionatoria: la possibilità del demansionamento viola le garanzie poste dall’articolo 2103 c.c. in relazione all’an e al trattamento economico; la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, dal canto suo, consente l’applicazione di una misura sanzionatoria particolarmente grave al di fuori delle garanzie del procedimento disciplinare di cui all’art. 7 dello Statuto dei lavoratori. Rimane invece escluso ex auctoritate che il dipendente c.d. no vax possa essere licenziato per inidoneità sopravvenuta alla mansione ovvero per motivo disciplinare, come era stato ipotizzato.
Questa nuova disciplina dispone anche una esenzione dall’obbligo laddove consente che la vaccinazione «non è obbligatoria e può essere omessa o differita nel caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale» (così il comma 2 dell’art. 4): in tali casi, il rifiuto alla vaccinazione viene ex lege considerato giustificato e legittimo, con la necessaria conseguenza che la Asl non possa adottare l’atto di accertamento dell’inosservanza dell’obbligo. La norma, però, non prevede espressamente le misure che debba adottare il datore di lavoro in tali circostanze, ma pare indubitabile che, non contravvenendo ad un obbligo, il lavoratore sia comunque manchevole di un requisito essenziale per l’esercizio della sua prestazione, sia pure non per sua colpa, e persista il rischio di contagio per la salute pubblica e per quella individuale, con tutto ciò che ne consegue in termini di responsabilità del datore ex art. 2087 c.c. Parrebbe, quindi, ragionevole, che il datore provi a ricollocare medio tempore il dipendente in mansioni, anche inferiori, compatibili con il suo quadro clinico, ovvero, se non ve ne fosse la possibilità, lo esenti dal rendere la prestazione facendo applicazione, però, in tal caso, non della sospensione ex art. 4 del d.l. n. 44/2021, quanto piuttosto della disciplina ordinaria della sorveglianza sanitaria e della sopravvenuta inidoneità del lavoratore ex art. 42 del Testo unico, da interpretarsi comunque in senso compatibile con il decreto 44 e, quindi, con esclusione della misura non conservativa del licenziamento, pena la radicale frustrazione della razionalità del sistema .
L’articolo 4, in conclusione, ha introdotto una duplice qualificazione della vaccinazione nell’ambito del rapporto di lavoro: da una parte, obbligo finalizzato a tutelare la salute pubblica, da una altra parte, requisito essenziale per lo svolgimento di determinate ed individuate attività, con l’espresso fine di mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza da parte dei soggetti onerati. Così, «la vaccinazione diventa anche una misura, tipizzata dalla legge, per l’adempimento dell’obbligo di sicurezza ex art. 2087 cod. civ. Questa duplice finalità – salute pubblica, sicurezza nel luogo di lavoro – ha consentito al legislatore di qualificare la vaccinazione anche come requisito essenziale per lo svolgimento delle suddette prestazioni, e quindi anche come un onere per i lavoratori» .
6. La non obbligatorietà del vaccino per il personale che non svolga attività di interesse sanitario.
L’aver dettato una disciplina obbligatoria di tal fatta esclusivamente applicabile al personale che svolga attività di interesse sanitario comporta, inevitabilmente, che l’analisi della materia si scinda in due ragionamenti, differenti, ma collegati: è proprio la selettività della nuova prescrizione a lasciare immutata la attualità e la necessità del discorso volto all’individuazione delle possibilità cui si trova dinanzi un datore di lavoro che deve gestire il rischio di contagio da Covid, nell’ottica della graduale ripresa delle attività lavorative in sicurezza, tra i propri dipendenti quando non svolgano attività di rilievo sanitario. Anticipando il risultato dell’indagine che si svolgerà, parepotersi concludere che un obbligo a sottoporsi al trattamento vaccinale non sia posto né possa essere desumibile dalle disposizioni vigenti.
Contrariamente a quanto sostenuto da alcuni , non pare che l’obbligo generale di sicurezza sancito dall’articolo 2087 c.c. possa fondare una prescrizione del genere: come noto, dal contratto di lavoro subordinato deriva in capo al lavoratore un diritto – soggettivo e indisponibile – a che il datore di lavoro adotti tutte le misure di prevenzione necessarie a proteggere la sua integrità fisica e morale, quale titolare di una posizione di garanzia ex lege che lo obbliga a garantire l'integrità fisica e morale del prestatore di lavoro, proteggendolo in via preventiva dai pericoli dell'ambiente lavorativo e rispettando la sua sfera personale, in diretta attuazione del precetto ex art. 32 Cost., di cui la norma del codice rappresenta applicazione qualificata ai luoghi di lavoro .
Stante la sua acclarata natura di norma di chiusura del sistema di prevenzione «con funzione di adeguamento permanente dell'ordinamento alla sottostante realtà socio-economica» , estensibile ad ipotesi e situazioni non espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione, ed il cui oggetto è destinato naturalmente a modificarsi col progredire della tecnica, delle conoscenze e dell'esperienza, sul quale convergono unanimemente dottrina e giurisprudenza ormai granitiche, si ritiene che l’articolo 2087 sia una norma aperta, il cui contenuto è volto a supplire alle eventuali lacune di una disciplina che non può ragionevolmente prevedere e normare qualunque fattore di rischio, ed è pertanto pronta a recepire le esigenze variabili del miglioramento dei livelli della sicurezza al progredire e mutare della tecnica e dell'organizzazione del lavoro. Il datore di lavoro è tenuto, pertanto, ad adottare tutte quelle misure ulteriori che risultino necessarie secondo gli standard tecnici più aggiornati, in forza del principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile. Il principio comporta di fatto l'imposizione di due precisi criteri direttivi: il datore deve adeguare i sistemi prevenzionali alle acquisizioni della più moderna tecnologia, e conseguentemente tenere aggiornate misure e mezzi di protezione; tale obbligo non può trovare attenuazione o limiti in motivazioni di ordine meramente economico.
Ciò considerato, ove si ritenesse di collegare un inespresso obbligo alla vaccinazione anti Covid del personale dipendente alle previsioni generali dell’art. 2087 cod. civ., ciò sostanzialmente significherebbe rimettere una tale imposizione «alle valutazioni del datore di lavoro effettuate in base all’“esperienza e tecnica” che sarebbero destinate a prevalere rispetto alla scelta del legislatore» di attuare il piano vaccinale su base volontaria. Il che pare, per vero, paradossale.
Né si rinvengono, in senso contrario, indicazioni dalla giurisprudenza costituzionale la quale, anche laddove ha sostenuto l’esistenza di un «dovere dell’individuo di non ledere né porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui», ammettendo la possibilità di sottoporre la persona a trattamenti sanitari obbligatori, in prima battuta esitanti in accertamenti sanitari precauzionali, ovvero di prevedere particolari oneri cui assoggettarla «nel caso delle malattie infettive e contagiose, la cui diffusione sia collegata a comportamenti della persona, che è tenuta in questa evenienza ad adottare responsabilmente le condotte e le cautele necessarie per impedire la trasmissione del morbo» , lo ha fatto in senso del tutto particolare, puntellando la motivazione di una serie dettagliata di cautele, e solo quando vi era già stata, da parte del legislatore l’introduzione di una misura prescrittiva obbligatoria, ribadendo, infatti, sempre che spetta al legislatore e alla sua discrezionalità e responsabilità politica – tra l’altro molto ampia in questa materia – scegliere se prescrivere un accertamento o un trattamento sanitario, oppure se fornire strumenti diversi che implichino un diverso bilanciamento tra il fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività alla tutela della salute, ex art. 32 Cost., e la tutela del lavoro, ex artt. 1 e 4 Cost..
Del resto, e in ogni caso, anche lasciando a latere le questioni poste dall’applicazione della norma codicistica, gli strumenti a disposizione del datore di lavoro per esercitare la sua posizione di garanzia ed evitare la diffusione delle infezioni da Covid nei luoghi di lavoro sono diversi – e tutti analiticamente regolamentati nei citati Protocolli – e l’opzione di vincolare il dipendente ad assoggettarsi, contro la sua volontà, a un trattamento sanitario vaccinale pare essere priva dei relativi margini di ammissibilità.
Sotto altro punto di vista, non sembra nemmeno che un obbligo vaccinale contro il Covid-19 possa essere desunto dal sistema del Testo unico della sicurezza sul lavoro che con una disciplina fortemente dettagliata fissa le regole di condotta cui deve attenersi il datore di lavoro-modello, operando una specificazione puntuale e concreta dell’obbligo generale di sicurezza di cui all'art. 2087, quasi a scorporare analiticamente i distinti comportamenti pretesi dal datore di lavoro al fine di superarne l'eccessiva genericità e restituire alla norma l'autentica funzione prevenzionale, pur nella conferma della filosofia ispiratrice. Nel dibattito sorto i primi mesi del 2021 sono state richiamate una serie di disposizioni del Testo unico, quali in particolare l’articolo 20, disciplinante gli obblighi dei lavoratori, e il 279, relativo alla attività di prevenzione e controllo cui è tenuto il datore per lavori che comportino esposizione ad agenti biologici, dalle quali, però, non pare potersi far derivare un obbligo attuale a sottoporsi alla vaccinazione anti Sars-CoV-2.
In senso critico, si rileva che l’art. 279 detta una prescrizione rivolta al datore di lavoro, vero ed unico destinatario di quella normativa, e pone in capo a questi il dovere di mettere a disposizione dei propri dipendenti i vaccini; la norma non si preoccupa minimamente della posizione soggettiva del lavoratore e non si può certo che così imponga al lavoratore di ricevere una prestazione sanitaria che – beninteso – non è nella disponibilità dei datori (rimanendo, sempre, con la vaccinazione anti Covid, anche quando si potrà procedere nei luoghi di lavoro, una attività di sanità pubblica di competenza e responsabilità del Servizio sanitario nazionale, come si è detto). Dal canto suo, l’art. 20, insieme al generale e solidaristico dovere generale di cura della salute e della sicurezza propria e altrui, impone al lavoratore una serie di doveri specifici dei quali uno si riferisce esplicitamente ai trattamenti sanitari, ma riguarda esclusivamente i controlli sanitari previsti dallo stesso Testo unico o comunque disposti dal medico competente .
Non paiono rinvenibili, quindi, disposizioni nel sistema del Testo unico che prevedano un obbligo contrattuale, ovvero il dovere generale e solidaristico del lavoratore di sottoporsi a vaccinazioni di qualunque tipo le quali, anzi, ogniqualvolta vengano citate, sono oggetto solamente di un previsto e prescritto dovere di informazione piena e completa: questo dato porta a ritenere, di per sé, attenendosi ad una lettura rigorosa della disciplina ordinaria, imposta come si è visto dallo stesso tenore delle disposizioni costituzionali e della interpretazione fornitane dalla Consulta, che il legislatore abbia voluto ribadire la necessità in materia del consenso libero e informato, e non invece imporre l’eccezione della obbligatorietà di un trattamento sanitario.
Quanto alla disciplina emergenziale, si rinvia a quanto detto supra , considerando anche che il neo introdotto obbligo vaccinale per il personale dipendente che svolga mansioni di interesse sanitario conferma la bontà del ragionamento sin qui svolto, e condiviso da più parti in dottrina, che conduce a ritenere necessaria, per l’imposizione di un trattamento sanitario, oltre che fortemente opportuna, per la regolamentazione delle conseguenze concrete dell’inadempimento dell’obbligo stesso nei rapporti giuridici contrattuali, come quello di lavoro, una specifica ed espressa disposizione normativa di legge o avente forza di legge statale.
Un ultimo argomento conduce, infine, alla medesima conclusione già anticipata: un eventuale potere del datore di lavoro di fronteggiare il rifiuto del dipendente di vaccinarsi e di reagirvi implicherebbe il diritto di quegli ad essere informato sulla condizione sanitaria del lavoratore e sulla sua avvenuta, o meno, vaccinazione, un diritto, però, che è stato categoricamente negato dal Garante per la privacy in una faq comparsa sul suo sito istituzionale lo scorso 17 febbraio 2021. Il Garante chiarisce, infatti, che «il datore di lavoro non può acquisire, neanche con il consenso del dipendente o tramite il medico compente, i nominativi del personale vaccinato o la copia delle certificazioni vaccinali. Ciò non è consentito dalla disciplina in materia di tutela del la salute e sicurezza nei luoghi di lavoro né dalle disposizioni sull’emergenza sanitaria. Il consenso del dipendente non può costituire, in questi casi, una condizione di liceità del trattamento dei dati. Il datore di lavoro può, invece, acquisire, in base al quadro normativo vigente, i soli giudizi di idoneità alla mansione specifica redatti dal medico competente» .
In mancanza di una disposizione di legge statale che prescriva espressamente l’assoggettamento a un determinato trattamento sanitario – qui vaccinale – deve concludersi che chi lo rifiuta esercita un proprio diritto soggettivo, avente copertura costituzionale in uno con il diritto al consenso libero e informato e sempre revocabile, che non può essere legittimamente limitato da atti negoziali .
7. Considerazioni conclusive.
Il quadro così ampiamente variegato, offre l’opportunità di condividere qualche argomentazione finale per ricondurre il tema ad un qualche spunto conclusivo, che inevitabilmente è fortemente condizionato dalla situazione di fatto, sanitaria epidemiologica e vaccinale, e di diritto vigente al momento in cui si scrive.
Il rifiuto del vaccino anti Covid da parte di un dipendente soggetto all’obbligo di legge ex art. 4 d.l. n. 44/2021 pare rappresentare un ibrido tra un inadempimento agli obblighi contrattuali, come integrati dalle disposizioni normative emergenziali, e una sopravvenuta e temporanea impossibilità alla mansione che legittima l’applicazione di misure sanzionatorie tipizzate e di progressiva gravità, connotate da un significativo carattere derogatorio rispetto alla disciplina giuslavoristica ordinaria.
Il rifiuto, al contrario, del lavoratore che non sia soggetto alla prescrizione obbligatoria si configura inevitabilmente come esercizio legittimo di un diritto soggettivo non limitabile per effetto di atti negoziali, unilaterali o consensuali, individuali o collettivi, per le ragioni illustrate, ma rappresenta, altrettanto indubitabilmente, un fatto oggettivamente rilevante per l’organizzazione aziendale e la gestione dei rapporti di lavoro. Nei rapporti di lavoro diversi da quelli di interesse sanitario, perdurando la situazione di vuoto normativo, con la conseguente accertata impossibilità per il datore di lavoro di conoscere le scelte sanitarie in materia dei propri dipendenti e di adottare misure prescrittive o sanzionatorie nei confronti di quanti rifiutino la vaccinazione e vengano dichiarati inidonei a svolgere la abituale mansione dal medico competente, sulla scorta del Protocollo sulla vaccinazione nei luoghi di lavoro, il datore non può (allo stato) imporre ai propri dipendenti l’obbligo di sottoporsi al trattamento anti Covid. Può, però, se vuole aderire alle misure in campo, attivamente promuovere la campagna vaccinale e farsi promotore di una adeguata e seria informativa per favorire nella misura massimamente possibile una adesione volontaria e consapevole al vaccino e, in secondo luogo, con la continua assistenza del medico competente, adottare tutte le misure alternative di organizzazione del lavoro codificate nei protocolli aggiornati cui il legislatore e le parti sociali attribuiscono efficacia anti contagio, primo fra tutti l’uso prioritario del lavoro da remoto , senza dimenticare che ben potrebbe, il legislatore, anche in considerazione dell’evoluzione concreta e progressiva della pandemia e della disponibilità delle dosi vaccinali, porre nuove disposizioni a regolamentazione della fattispecie anche nei contesti lavorativi diversi da quello sanitario.