TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

Cominciamo dall’inizio. A cosa è dovuta la tua scelta di studentessa di giurisprudenza di laurearti in diritto del lavoro? Decisivo è stato l’incontro con Giugni, immagino.

Si, in effetti, l'incontro con Giugni è stato decisivo per me. Avevo dentro di me preso la decisione di cambiare facoltà e mi ero segretamente iscritta alla facoltà di Scienze politiche. Segretamente perché mio padre non approvava questa scelta. Poi al secondo anno ho incontrato Giugni e mi sono riappacificata con la scelta originaria. Penso di aver mantenuto per un po’ l'iscrizione congiunta a Scienze politiche, che intanto mi aveva riconosciuto alcuni esami. Poi ho continuato con grande passione gli studi giuridici grazie a Giugni, che era uno straordinario comunicatore. Aveva una tecnica di insegnamento molto coinvolgente.

Ti sei laureata nel 1971 con una tesi sui consigli di fabbrica. Cosa significava studiare il diritto del lavoro nella stagione dell’Autunno caldo e dello Statuto?

Il corso di diritto del lavoro che ho frequentato era carico di riferimenti alla realtà contemporanea. In quell'anno Giugni fu chiamato da Brodolini, che lo volle con sè per dirigere l'ufficio legislativo del Ministero del lavoro. Ci comunicò il suo dilemma durante una lezione: accettare o no l'offerta di Brodolini, perché sentiva una forte dedizione per l'insegnamento, unita a senso di lealtà nei confronti degli studenti, e la responsabilità di lasciare un corso che era già stato avviato e che non avrebbe potuto concludere. Dall’altro lato c’era il richiamo a un dovere istituzionale, che significava anche mettere le sue conoscenze a disposizione di un progetto politico in cui credeva. Naturalmente accettò e il suo corso fu proseguito da Edoardo Ghera, che era già professore a Bari. Noi studenti avemmo comunque la fortuna di seguire l'evoluzione dell’iter legislativo, perché Giugni tornava ogni tanto a Bari e ci coinvolgeva nei resoconti della sua attività.

Alla fine del corso sostenni l’esame con Giugni, che mi propose subito di collaborare alla ricerca sulle prassi aziendali, entrando in un gruppo guidato da un sociologo del lavoro. Quella ricerca fu l’ultima pubblicata da il Mulino nella serie degli studi sulla formazione extra-legislativa del diritto del lavoro. Io vi presi parte quando ero ancora studentessa di giurisprudenza, insieme ad altri due studenti selezionati da Giugni, Raffaele del Vecchio e Aldo Balducci. Ho quindi cominciato a raccogliere i materiali sui consigli di fabbrica, che mi sarebbero serviti per la tesi, perché proprio in quel momento prendevano corpo le prime sperimentazioni di questa forma di democrazia diretta nei luoghi di lavoro. Molto vivida nella mia memoria è la visita alla Olivetti di Ivrea, dove il gruppo di ricerca fu accolto da Umberto Chapperon, una persona straordinaria, capace di affiancare giovialità e immediatezza a una profonda cultura manageriale, connessa a una diffusa conoscenza dei processi produttivi. Con lui, grande amico di Giugni, sono rimasta in contatto anche in seguito, con una rassicurante continuità di conversazioni telefoniche che spaziano sui temi più disparati del mondo e della cultura. Quanto ho imparato da quei primi passi come studentessa di diritto del lavoro!

Quando lo Statuto è entrato in vigore, è sorto il problema di non escludere dall’applicazione e dalle garanzie dell’art. 19 i consigli di fabbrica già operanti nei luoghi di lavoro. Seguire questo dibattito è stato veramente esaltante. Ricordo il ben noto convegno AIDLASS svoltosi a Perugia nel 1970 con la relazione di Federico Mancini, cui Giugni mi consigliò di partecipare. Memoria, anche questa, molto nitida.

Giugni, tra l’altro, in quegli anni promuoveva corsi di formazione sullo Statuto, che affidava ai suoi allievi più anziani di me. Erano corsi prevalentemente diretti a manager ma anche a sindacalisti, per illustrare una legge così innovativa. Io ero ammessa come uditrice ad alcune di queste lezioni; ricordo in particolare quelle tenute da Franco Liso che mi appassionavano anche per il suo modo non convenzionale di rivolgersi ai partecipanti, coinvolgendoli. Molti di questi corsi si tenevano a Roma in Piazza Esedra, presso l'IFAP, l'istituto di formazione delle aziende del gruppo IRI. Per me quella è stata una palestra importantissima, anche perché ho iniziato ad imparare una tecnica di insegnamento attenta all'ascolto di chi partecipa, nonché rispettosa delle opinioni espresse nelle domande. Questi corsi erano, infatti, frequentati da persone che lavoravano in azienda e ponevano domande molto circostanziate, alle quali i docenti rispondevano con grande competenza. Noi del gruppo di Bari abbiamo quindi vissuto la prima attuazione dello Statuto dei lavoratori anche attraverso l'esperienza di chi contribuiva a far vivere quella legge nei luoghi di lavoro.

Di Giugni hai parlato e scritto tante volte, di recente introducendo la raccolta dei suoi scritti editi da Laterza, dove affermi che “la sinergia creata da maestri della sua statura appare essa stessa un’idea duratura, specialmente se osservata a distanza di tempo”. Ad un giovane studioso che l’osserva oggi, come descriveresti questa sinergia?

Effettivamente il mio Maestro stabiliva con gli studenti una sinergia che dava molta fiducia, perché era un uomo coinvolgente e appassionato, capace di trasmettere la sua progettualità. D’altra parte non si deve dimenticare che la sua militanza politica si è trasfusa in un forte impulso riformatore, che ha caratterizzato tutte le sue attività. Era molto partecipe del suo ruolo di docente e trasferiva fiducia, ma anche una fortissima responsabilità. Era severo, pretendeva molto da tutti noi e lo chiariva fin dall’inizio nell’avviare la collaborazione. Credo che questo possa essere un esempio valido anche oggi, nel rapporto fra docenti e studenti e per i professori universitari che avviano rapporti di collaborazione con giovani studiosi.

Con Giugni iniziasti l’esperienza del ‘Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali’, di cui poi avresti ereditato la direzione. Delle prime riunioni di redazione in via Livenza cosa ricordi in particolare?

Di Via Livenza ho un ricordo bellissimo, è un luogo rimasto impresso nella mia memoria. Lo studio di Giugni era semplice ma molto accogliente, in un bel palazzo antico: ricordo perfino l'ascensore, che aveva un elegante sedile all’interno. Giugni possedeva una leadership naturale, che esercitava grazie ad una eccezionale capacità di sintesi tra le diverse posizioni presenti in redazione, una redazione composta di studiosi anche molto giovani. Lasciava intervenire tutti su un piano paritario ed ascoltava tutti alla stessa maniera. Questo favoriva il confronto tra di noi e l’emergere di idee nuove, che prendeva sempre seriamente in considerazione. Le riunioni erano molto lunghe, a volte molto accalorate, con tante voci anche discordanti, ma alla fine si giungeva sempre ad una conclusione. C'era insomma sempre una via d'uscita, grazie alla grande capacità di raccordo che Gino aveva. Questo è un aspetto del gruppo che componeva la prima redazione del Giornale che mi piace ricordare.

Torniamo ai tuoi primi anni di ricercatrice ed in particolare ai tuoi soggiorni negli Stati Uniti alla UCLA e ad Harvard. Come hanno influito queste esperienze sulla tua formazione di studiosa?

Anche per questo sono molto grata a Giugni perché fu lui a segnalarmi la borsa di studio Harkness, che, oltre che prestigiosa, era anche molto generosa in quel periodo. La borsa durava due anni e prevedeva che si vivesse negli Stati Uniti per tutta la sua durata, scegliendo liberamente le Università dove andare e la formula con cui soggiornare. Io, per esempio, ero visiting scholar, quindi non dovevo frequentare i corsi per sostenere gli esami, ma assistevo e avevo incontri con i docenti. Fu impegnativo l'esame di selezione per ottenere la borsa di studio. Mi sono preparata spasmodicamente anche perché era la prima volta che sostenevo una prova in inglese. Tra l’altro all’epoca il test di lingua inglese, il TOEFL, si sosteneva ascoltando un vinile e le domande avevano un fastidioso fruscio di fondo…Però andò bene, intrattenni un lungo colloquio con un elegante signore americano inviato dalla Fondazione Harkness in Italia per selezionare i candidati. Il ‘Commonwealth Fund’, cui la borsa di studio faceva riferimento, era sorto inizialmente per i soli studi di medicina e solo per borsisti dei paesi del Commonwealth. Fortunatamente però, in quei favolosi anni 70 – l’avventura è iniziata nel 1974 –  il reclutamento era stato aperto alle altre scienze, comprese le scienze sociali e anche a studiosi di paesi europei. Io ho avuto la fortuna di intercettare questa esperienza in un arco di tempo limitato perché poi purtroppo la borsa di studio non è più stata riproposta in questi termini. Ho scelto Los Angeles perché lì insegnava il professore Benjamin Aaron, amico di Giugni e con lui parte dello storico gruppo di diritto del lavoro comparato. E’ stata un'esperienza molto utile e formativa perché per la prima volta ho lasciato Bari e ho imparato ad adattarmi e a vivere in ambienti molto diversi da quelli familiari e da quelli, se si vuole un po’ ovattati, dell’Università di Bari. Giugni aveva predisposto i nostri percorsi di carriera, pretendeva molto da noi, ma quei luoghi e quel gruppo erano un po’ casa mia. In California naturalmente ho scoperto un altro mondo. Il professor Aaron era particolarmente rigoroso: se saltavo una sua lezione mi faceva subito chiamare dalla sua segretaria, mi chiedeva il motivo della mia assenza. Era severo ma anche protettivo, come se sentisse la responsabilità di un’allieva di Giugni, che gli era stata segnalata e che non poteva perdere di vista nel suo percorso di studio. La facoltà di legge dove insegnava, la Law School dell’UCLA, era collegata al famoso Institute of Industrial Relations, luogo in cui si insegnavano le relazioni industriali “in azione”, quelle descritte da Giugni e Mancini nel famoso saggio apparso ne il Mulino. Vi si formavano manager e sindacalisti e le lezioni erano tenute non solo da accademici: un’esperienza stimolante, con una circolazione di saperi straordinaria. Quel modello fu replicato da Giugni a Bari, con la creazione della Scuola di specializzazione, di cui sia io sia Roberto Voza abbiamo parlato nei nostri ricordi di Giugni. 

Prima di arrivare a Firenze hai insegnato nella Facoltà di Scienze economiche e bancarie di Siena: e Siena significa anche Seminari di diritto comparato di Pontignano, che iniziano nel 1983.

Voglio innanzi tutto ricordare Guido Balandi, che è stato generoso compagno di avventura e grandioso organizzatore di questi seminari. L’idea nacque in realtà da un convegno su Otto Kahn Freund che organizzammo a Siena, mi pare nell’81, non troppo tempo dopo il mio arrivo all’Università di Siena. Parteciparono molti studiosi per ricordare questo straordinario Maestro che tanto aveva influenzato il pensiero giuslavoristico del tempo, anche in Italia. Ci riunimmo nella Certosa di Pontignano e lì nacque l'idea che si poteva continuare a praticare una comparazione ‘‘sul campo’’, coinvolgendo figure rappresentative di vari Paesi europei. Grazie a Guido ci fu una collaborazione con AIDLaSS, in particolare con il Professor Pera che ne guidava la segreteria. Fu una collaborazione importante perché AIDLaSS non solo forniva sostegno economico alla nostra iniziativa, finanziando brevi borse di studio per i giovani studiosi selezionati per prendere parte ai seminari, ma soprattutto conferiva prestigio alla nostra iniziativa. Quella fu forse per il diritto del lavoro italiano una delle prime aperture a un modello strutturato di comparazione, anche se non si deve dimenticare che molto prima il Professor Giuliano Mazzoni aveva frequentemente promosso attività di comparazione nei suoi seminari fiorentini. Né si può tralasciare la fruttuosa esperienza dell’Università di Trieste. La nostra voleva essere – e lo è stata –  una comparazione intergenerazionale. Pontignano, poi, con la sua splendida Certosa, era la sede ideale per questo genere di incontri, che si tenevano ogni anno più o meno sempre nello stesso periodo e che comportavano una permanenza e una convivenza tra studiosi giovani e meno giovani per diversi giorni. Davvero ho un ricordo esaltante di quel periodo.

Pontignano mi evoca immediatamente la figura di Bill Wedderburn, perché la prima volta che me ne parlasti fu proprio a proposito di una sua presenza al Seminario. L’incontro con Bill per me è stato fondamentale ed ha segnato il mio percorso di formazione sin dall’inizio. Il primo “compito” che mi assegnasti come cultore della materia all’Università di Firenze fu di rivedere le bozze del volume edito da Giuffrè “I diritti del lavoro” che contiene il saggio sul diritto di sciopero in Europa, un testo ancora fondamentale per chiunque voglia orientarsi sul tema. Non avrei mai immaginato che avrebbe scritto da lì a pochi anni la prefazione alla mia monografia sullo sciopero. Cosa ha rappresentato per te il rapporto con Bill?

Hai fatto bene a ricordarmi il tuo lavoro sulle bozze del libro che raccoglie alcuni scritti di Wedderburn, perché la collana in cui è stato pubblicato era curata da Cosimo Mazzoni, mio amico e collega a Siena, che ci ha lasciati prematuramente. Quel libro fu forse uno dei pochi dedicati al diritto del lavoro. Fu un lavoro molto complesso che Bill seguì personalmente, scegliendo i saggi da tradurre, tra cui appunto quello famoso sullo sciopero.

Anche a questo grande professore devo veramente molto, lo considero il mio secondo maestro. Non penso che dimenticherò mai il nostro primo incontro, che avvenne a Bologna. Io ero appena tornata dagli Stati Uniti, quindi si parla dell'inizio dell'autunno del 1976. A Bologna si riuniva il gruppo “storico” di comparatisti che lavorava al libro sulle discriminazioni nei rapporti di lavoro: Folke Schmidt, Xavier Blanc-Jouvan, Thilo Ramm, Benjamin Aaron…. Giugni mi aveva chiesto di dargli una mano a Bologna come aiutante sul campo, per ricercare e fotocopiare documenti e testi per il lavoro del gruppo. Appena tornata dagli Stati Uniti – pensa che fortuna – sono stata proiettata in questa straordinaria esperienza e ho ritrovato Giugni che avevo lasciato per due anni, perché durante il mio soggiorno americano non ero mai tornata in Italia. E fu dunque Giugni, a Bologna, a presentarmi Bill, che io ovviamente conoscevo per la sua fama.  Ero intimidita e scoprii invece una figura di grande affabilità e simpatia. Lo vedo ancora ora all'opera nel gruppo dei comparatisti, appassionato e attento, mentre con un gesto consueto della mano si ravvia una ciocca di capelli che gli cade sulla fronte: mi facevano assistere a tutte le riunioni e così ho scoperto una fantastica sintonia fra Giugni e Wedderburn che erano i due, se così si può dire, più liberal del gruppo. Due riformatori “pro labour”, un inglese e un italiano, che mettevano insieme le loro conoscenze e riflettevano sulle riforme che in quegli anni prendevano corpo in molti paesi europei. Nel gruppo Aaron era il più “prudente”, sospettoso rispetto al loro approccio, fedele a un metodo un po’ più tradizionale. Ricordo bene anche gli interventi di Folke Schmidt, uomo di grande simpatia e cultura. Insomma, Wedderburn da allora ha iniziato a sollecitare la mia curiosità intellettuale e, siccome avevo scritto la tesi sui consigli di fabbrica e avevo pubblicato un primo breve articolo in italiano, mi chiese di approfondire il confronto con gli shop steward inglesi, perché era molto incuriosito da queste tematiche e mi incitò a farlo in inglese, cosa che avvenne, con la sua supervisione.

Così, da questo primo tentativo di scrivere in inglese, nacque il mio rapporto con Bill, che fu da subito estremamente stimolante, perché da lui veniva un costante invito a leggere e studiare. Quando fu eletto alla Camera dei Lord, cominciò a mandarmi per posta i resoconti dei dibattiti parlamentari. Il modo con cui assunse questo suo nuovo impegno politico fu per me di grande insegnamento. Veniva da una critica feroce proprio rivolta alla Camera dei Lord che avrebbe dovuto essere riformata, se non abolita, ma poi, divenutone membro, svolse il suo ruolo con il grande rigore e l’impegno che lo caratterizzava.

A Firenze arrivasti dopo il pensionamento del Professor Aranguren, ma io ti ho conosciuta durante il mio quarto anno, come docente del corso di diritto del lavoro comparato. Un corso impostato con metodologia del tutto nuova per me e che cambiò il mio modo di  concepire lo studio del diritto. Finito il corso, in extremis, decisi di cambiare tesi e passare dal diritto penale al diritto del lavoro.

Sono giunta a Firenze provenendo da una scuola per così dire lontana dalla scuola fiorentina. Il  Professor Giuliano Mazzoni, uomo di grande stile e correttezza, si preparava ad accogliere a Firenze un'allieva di Giugni.

Il mio ingresso in Facoltà non fu privo di preoccupazioni. Basti dire che in Consiglio di facoltà prima del mio arrivo c’era una sola donna, Anna De Vita. Mi aiutò ad inserirmi nell’ambiente fiorentino il fatto che fui dapprima chiamata a insegnare nel corso di diritto comparato del lavoro, come tu ricordavi. Quella cattedra è stata per me un viatico, perché mi permise di entrare in contatto con i comparatisti fiorentini. Fu importante trovare subito un canale di comunicazione con questa corposa e autorevole compagine della Facoltà di giurisprudenza, composta di studiosi di altissimo livello. Alcuni di questi, per altro, li conoscevo già, dagli anni senesi: in particolare i miei amici Enzo Varano, Niccolò Trocker e Valerio Grementieri, con i quali avevo viaggiato fra Firenze e Siena negli anni della nostra permanenza in quell’Ateneo. Ma ho molta gratitudine per tutto il corpo docente fiorentino, nel quale mi sono progressivamente inserita. Mi ha aiutato anche il fatto di vivere a Firenze, per cui ero già in contatto con molti docenti della Facoltà. Tra tutti, voglio ricordare Paolo Grossi, che mi ha offerto da subito grande sostegno e mi ha sempre incoraggiata

All’ Università di Firenze hai insegnato pochi anni, perché nel 1994 diventi docente all’Istituto Universitario Europeo di Fiesole. Insegni all’IUE in anni cruciali del processo d’integrazione europea: l’Europa del dopo Maastricht, fino agli anni dell’allargamento e del (fallito) percorso costituente. Non posso dimenticare il mio primo mitico seminario in Sala Triara, a Villa Schifanoia, con Stefano Giubboni, Samuel Engblom, Diamond Ashiaborg, Christophe Vigneau, Mark Bell, in cui sperimentavamo la law in context.

Certo, anni straordinari. Approdai all’IUE proprio negli anni in cui nacque l’European Law Journal, di cui fu fondatore Francis Snyder, promotore convinto della law in context. Credo di aver pubblicato nel primo o secondo numero di quella rivista, un articolo che riprendeva il contenuto dei miei primi seminari in lingua inglese. Prima di arrivare all’IUE infatti non avevo mai insegnato in inglese. Negli Stati Uniti avevo tenuto seminari, ma non un ciclo intero di lezioni. Ero sempre un po’ ansiosa e mi preparavo moltissimo. Entrando in Sala Triara – l’aula delle ‘nostre’ lezioni in European Social Law –  ho avuto la fortuna di incontrare voi, un gruppo così interessante e variegato di giovani studiosi, ciascuno con un proprio specifico percorso formativo: penso a Diamond, ad esempio, che veniva da tutt'altra esperienza rispetto a te e Stefano. Nonostante questo, tra voi c’era un’intesa di fondo. Certo, il periodo storico lo consentiva perché erano gli anni dell’espandersi delle politiche sociali in Europa: le direttive sociali più importanti sono state adottate in quegli anni e le vostre tesi di dottorato coprivano quasi tutti i capitoli di quel diritto sociale europeo in formazione. Alcuni di voi ebbero l’opportunità di accedere a stage presso la Commissione europea e così seguire l'iter legislativo delle direttive. In qualche modo si riproduceva l'esperienza che avevo vissuto con Giugni: allora seguivo la nascita e la prima attuazione dello Statuto dei lavoratori e all’Istituto seguivamo la nascita delle direttive sociali più importanti. E’ un periodo per me indimenticabile, anche per i rapporti solidi e stimolanti che ho potuto mantenere con molti di voi.

In quegli anni curi libri importanti, due in particolare con Mark Freedland, sul Part-time (anche con Paul Davies), per la Cambridge UP e, prima, sui Servizi pubblici nel diritto europeo, per la Oxford UP: mi preme ricordare quest’ultimo, per l’immagine del diritto del lavoro come “ponte” tra servizio pubblico e diritti di cittadinanza che tu adotti nel tuo capitolo; immagine oggi quanto mai pertinente per orientarsi nell’epoca della transizione verde e digitale.

Ti ringrazio perché mi ero dimenticata di quello scritto. Sì, è stato un libro importante per me, forse non abbastanza valorizzato. L’idea nacque chiacchierando con Mark Freedland, con cui c’è stata sempre armonia di punti di vista. Mark è una persona di grande fantasia intellettuale, con idee molto innovative, come emerge dai suoi scritti. Paul Davies l’ho conosciuto tramite Bill Wedderburn proprio nei primi anni in cui ho cominciato a frequentare Londra. Devo dire che la presenza di Paul Davis e Mark Freedland era molto rassicurante per me nei gruppi di ricerca che abbiamo messo insieme all'Istituto europeo, per poi arrivare a scrivere e curare libri con impostazione comparatistica. Sono per me, oltre che cari amici, figure solide, che mi hanno rafforzata nel lavoro di gruppo. Nel vederli all’opera nel gruppo di ricerca, capivi le sottili differenze tra di loro ma anche si coglieva una incredibile naturalezza nel rendersi complementari. Hanno a lungo pubblicato firmando insieme, come è noto. E’ una coppia di studiosi fantastici, proprio perché capaci di cogliere e sviluppare l’uno le idee dell’altro. Non erano naturalmente i soli che animavano questi gruppi; penso anche a Fernando Valdès, che era un motore di energia, di idee e di simpatia. Sono molto grata a tutti loro perché mi hanno aiutata nel dare un’impostazione forte allo studio della comparazione, anche in questo caso con il coinvolgimento di tutti i ricercatori dell'Istituto. Il famoso scambio intergenerazionale c’è stato in tutte le attività di ricerca svolte in quegli anni e secondo me è stato molto positivo: noi abbiamo ricevuto stimoli da voi e voi da noi. Uno scambio paritario, direi, e mi auguro proficuo per tutti.

Wedderburn, Freedland, Davies…..non può mancare un ricordo anche di Bob Hepple, tra i Maestri britannici. Il destino ha voluto che tu lo affiancassi come co-curatrice della sua ultima pubblicazione, edita da Franco Angeli: “Laws against Strikes”; un libro frutto di un indimenticabile seminario sudafricano cui (grazie a te) anch’io ho potuto partecipare nel novembre 2014.

Bob Hepple è stata un'altra figura importante per me, direi in qualche modo parallela a Wedderburn. Bill un vulcano in costante eruzione, Bob una figura più pacata, con una profonda cultura e una storia incredibile alle spalle. La sua assistenza a Mandela come giovane avvocato e poi la sua avventurosa fuga dal Sudafrica: vicende riportate nel suo libro autobiografico “Young man with a red tie”. Conoscere Hepple è stata una grande fortuna della mia vita. In lui c’era un tocco così genuino di amicizia nei miei confronti, che non dimentico. Come non dimentico i consigli che mi ha sempre dato con grande generosità. Ho conosciuto molto bene sua moglie e i suoi figli e condiviso le storie delle nostre famiglie.

L’idea del progetto sudafricano è nata nel tempo, dalle chiacchierate fatte a Cambridge, dove per la prima volta mi aveva invitata con Manfred Weiss e Roger Blanpain, quando era Master del Clare College ed abitava in una residenza universitaria meravigliosa, affacciata sul fiume. Ci aveva chiamati per scrivere un pamphlet sui diritti fondamentali, quindi abbiamo vissuto alcuni giorni nel College lavorando a una pubblicazione che poco dopo ha visto la luce. Da quella prima visita è nata una consuetudine di incontri al Clare College e dopo qualche anno, mi ha proposto di fare domanda per la Goodhart Chair in Legal Science,  offrendomi un’occasione meravigliosa nella mia vita di studiosa,  permettendomi anche di diventare Fellow del Clare College. Sono stata selezionata per ricoprire questa cattedra e per insegnare alcuni seminari nel dipartimento di giurisprudenza; ho vissuto per un anno nell’accogliente Goodhart Lodge, approfondendo la conoscenza di Bob e della sua vita professionale e umana. Fu in quel periodo che mi presentò Rochelle le Roux, con cui aveva un rapporto di amicizia e accademico; una donna propositiva e molto coinvolgente, che Bob ha sempre sostenuto nel contesto dell'università sudafricana. Con Rochelle è nata così l’idea di uno studio comparato sullo sciopero, ispirato dai drammatici fatti di Marikana. Ricordo di aver convinto Bob, che era un po’ reticente, in un viaggio in taxi per un aeroporto, non ricordo quale, su preciso incarico di Rochelle….il tassista ogni tanto guardava nello specchietto retrovisore. Non fu semplice tra l’altro per me partecipare al seminario che tu ricordi a Cape Town, perché nel frattempo ero stata nominata giudice costituzionale e dovetti chiedere al Presidente un permesso speciale per allontanarmi da Roma.

Accanto al rapporto con il mondo accademico anglo-sassone (termine per la verità odiato da Wedderburn…), c’è poi quello con il mondo scandinavo: un rapporto stretto, testimoniato dal titolo di dottore di ricerca honoris causa dell’Università di Stoccolma.

Anche questa è una storia di amicizia: all’origine della mia ‘‘vita svedese’’ c’è il rapporto con Ronnie Eklund. L’ho conosciuto perché rappresentava la Svezia nei convegni internazionali cui io partecipavo frequentemente, perché Giugni mi incitava a farlo, così come lo faceva con Bruno Veneziani. Ronnie è stato un professore molto attivo nella facoltà di Giurisprudenza di Stoccolma. Può sembrare una figura austera, quasi irraggiungibile, ma in realtà è un uomo simpaticissimo, grande appassionato degli Abba: ho ancora i dischi che mi ha regalato. All’Università aveva creato un programma di valorizzazione del gender balance, grazie al quale venivano ospitate molte docenti donne. Questo mi ha permesso di avere un insegnamento per un anno, che poi ho potuto suddividere in più soggiorni, in modo da alternarli con rientri in Italia. E’ in questa occasione che si è materializzata l'idea del dottorato honoris causa, che poi mi hanno molto generosamente assegnato. Questo per me rappresenta un motivo di orgoglio profondo.

Sempre negli anni dell’IUE, c’è la curatela del libro del 2001 sul dialogo tra Corti nazionali e Corte di giustizia (“Labour Law in the Courts”, per la Hart Publishing): tema chiave, che ha ispirato la tua successiva traiettoria di studiosa e di giudice costituzionale.

Presi spunto dalle ricerche di Joseph Weiler, pubblicate quando era ancora professore all’IUE. Ho un po’ di rammarico per non aver continuato quel tipo di ricerca. Indagare come nascono i rinvii pregiudiziali era un’idea innovativa, che è ancora di grande attualità. Anche come giudice costituzionale mi è capitato di riflettere proprio su questo tema e mettere a confronto le modalità con cui nascono le questioni pregiudiziali. Allora si era un po’ alle origini di questa riflessione, che adesso è diventata molto più complessa e sempre molto centrale per la dottrina.

La ricerca fu impostata con un gruppo di giudici che parteciparono ai nostri seminari. Mi piace ricordare l’allora giudice Mannone, poi diventato Primo Presidente della Cassazione, che si occupava di lavoro; più volte quando ci siamo rivisti in questi anni romani abbiamo ricordato i seminari dell’IUE. Anche i magistrati stranieri erano molto interessanti; come ad esempio Antonio Martín e Jesús Rentero, due bravissimi magistrati spagnoli che mi avevano segnalato Antonio Baylos e Fernando Valdès, se non sbaglio. Anche in quella ricerca eravamo a contatto con questioni concrete, che i magistrati ci illustravano. E poi c'era la dottrina, di nuovo composta da docenti e giovani ricercatori dell’Istituto. Tra questi – all’epoca era mio research assistent -   ricordo Miguel Poiares Maduro, che scrisse la sua tesi di dottorato (poi divenuta monografia) sul rapporto tra le Corti. Qualche anno dopo è diventato Avvocato generale alla Corte di giustizia.

Finita l’esperienza all’IUE, com’è stato il rientro nell’Università italiana. L’hai trovata cambiata? Cos’hai portato del metodo di insegnamento dell’IUE?

Non posso negare che un po’ di difficoltà c’è stata ritornando nell’Università italiana dopo un’esperienza come quella all’IUE. Anche in questo caso sono grata all’Università di Firenze per avermi ri-accolta, dopo avermi generosamente concesso un congedo dall’insegnamento, pratica che in molti paesi europei non era scontata. Mi sono subito messa all’opera per insegnare un corso “istituzionale” di diritto del lavoro, ma ho anche inventato il corso di diritto sociale europeo in inglese, inserito nel piano di internazionalizzazione dell’Ateneo, e questo mi ha permesso di mantenere una continuità con l’insegnamento svolto all’Istituto e di incontrare studenti provenienti da vari paesi, ma anche studenti dell’Università di Firenze , alcuni dei quali hanno scritto la tesi in inglese; come Giulia Frosecchi, che è adesso ricercatrice del Dipartimento di Scienze Giuridiche di quell’Ateneo

Il tuo “secondo” periodo di insegnamento fiorentino è coinciso con la direzione del Giornale, con Franco Liso. Hai traghettato la rivista in anni complessi per la materia, sia a livello nazionale (dalla legge Biagi al Jobs Act), sia europeo (con la crisi dell’Europa sociale). Non facile preservare l’anima pluralista propria della rivista.

No, non è stato facile succedere a un direttore come Gino Giugni, anche se io e Franco ci siamo inizialmente affiancati a lui, in una sorta di codirezione, prima di assumerla direttamente. Ci siamo sforzati di tener fede sempre al suo insegnamento, ricordando il suo metodo pluralista nel dirigere la rivista. Qualche volta in redazione ci sorprendevamo del fatto che desse spazio e attenzione più a studiosi non provenienti dalla nostra scuola che a noi, che ci consideravamo suoi figli diretti. Proprio questo è stato un altro suo insegnamento importante: l'apertura della redazione a figure di provenienza diversa. E’ sempre stato un Maestro capace di unire punti di vista discordanti, alla ricerca della sintesi, con la sua grande sensibilità di tessitore delle politiche che in così tanti ambienti aveva contribuito a elaborare. Cercare di mantenere il suo equilibrio è stata una bella sfida, anche perché, come tu dici giustamente, erano anni in cui è stata forte la contrapposizione di punti di vista all’interno della materia. Ci ha aiutati l’impostazione collegiale della redazione e l’impegno di tutti i colleghi.

Nell’assumere la direzione Franco e io abbiamo  avvertito anche il peso dell’eredità di chi non c’era più: penso in particolare a Gaetano Vardaro, che ho conosciuto nei primi anni della redazione e la cui morte è stata una perdita terribile per tutti noi.

E’ di questi anni (2005) anche il rapporto per la Commissione sulla contrattazione collettiva in Europa (“The evolving structure of collective bargaining”). Lo cito non solo perché tema oggi oggetto di intervento del legislatore europeo (scenario inimmaginabile all’epoca), ma per ricordare l’importanza che hai sempre attribuito all’attività di ricerca a supporto e al “servizio” delle istituzioni europee.

Quell’occasione è sorta grazie all’esperienza maturata all’IUE, dove è naturale il contatto con le istituzioni europee: un rapporto mai di sudditanza, ma di collaborazione e scambio reciproco di conoscenze. Ancora adesso i dottorandi  trascorrono periodi di studio presso le istituzioni europee e figure di spicco delle stesse istituzioni vengono a Fiesole per soggiorni di insegnamento e di scambio di esperienze. La ricerca che tu citi si è svolta quando ero già tornata a Firenze ed è stata un’occasione per continuare a praticare un metodo sperimentato all’Istituto. Non è stato agevole mettere in piedi questo gruppo di studiosi, però ce l'abbiamo fatta facendo affidamento, ancora una volta, sui miei amici, cioè su persone con cui avevo già costruito una pratica di comparazione. C’è stata tra di noi grande armonia, grazie ad un metodo di condivisione e scambio dei materiali su cui lavoravamo, testi e documenti necessari per sviluppare la ricerca.

Poi c’è stato il tuo lavoro monografico per la Laterza (edito successivamente anche dalla CambridgeUP), dato alle stampe alla vigilia del tuo ingresso in Corte, cui hai dato un titolo emblematico, specie considerando che il libro è stato scritto in piena crisi economico-finanziaria: “Solidarietà e conflitto”, due concetti  su cui si fonda il modello sociale europeo, difficili da declinare se si travalicano i confini nazionali. Vedi progressi su questo piano nelle dinamiche attuali dell’integrazione europea, rispetto a quando hai scritto il libro?

Questo libro è nato sull'onda di una diffusa preoccupazione per la crisi del processo d’integrazione. Nella versione in inglese, scritta quando ero già in Corte, grazie alla benevolenza di Cambridge University Press mi è stato possibile ampliare l’edizione italiana e aggiungere riflessioni sulle Corti costituzionali europee che si sono occupate delle politiche di austerità, compresa quella italiana che aveva cominciato ad affrontare alcune questioni sulle misure di contenimento della spesa pubblica. Non posso negare che la recente morte di Jacques Delors ci fa tornare indietro con  nostalgia agli anni delle politiche sociali forti e coerenti che richiamavamo prima, parlando del periodo trascorso all’IUE.  Nel periodo della presidenza Von der Layen, ci sono state molte speranze, alcune consolidate in esiti legislativi. Però, adesso, usciti dalla pandemia e con nuovi drammatici scenari di guerra, si avverte di nuovo uno stallo nelle politiche sociali rispetto a quegli anni. E soprattutto i problemi dell'integrazione sono tanti: la discussione sulle riforme che si protrae orami da tanto tempo, sulla modifica del voto all'unanimità, sui possibili nuovi allargamenti, sulle modifiche da apportare al Patto di stabilità. Tutto ciò ci riporta a un dibattito che conosciamo e che ancora una volta non dovrebbe essere dissociato dalla riflessione sulle politiche sociali. Non bisognerebbe mai dimenticare le misure sociali quando si avviano grandi riflessioni di sistema.

Il tuo arrivo in Corte non è passato inosservato: subito, la controversa sentenza n. 70/2015 sulla perequazione automatica contro cui si sono levate molte voci critiche, in dottrina e non solo. In primo luogo, non aver considerato l’impatto della decisione sul bilancio statale. A distanza di quasi 10 anni come si può rispondere a quelle critiche?

E’ una sentenza che difendo con tutte le mie forze e con rinnovata convinzione oggi, visto che è stata ripresa anche in una giurisprudenza successiva della Corte costituzionale. Devo molto ad alcuni giudici del Collegio, in particolare al mio collega Aldo Carosi, che era giudice eletto dalla Corte dei conti all'epoca. Ho imparato da lui e da altri quanto è importante fondare il ragionamento su dati contabili analitici e concreti. La misura che il Collegio stava vagliando era priva di relazione tecnica; quindi mancava un fondamento certo che giustificasse la necessità di “raschiare il fondo del barile”, se vogliamo usare una brutta terminologia, ma in questo caso calzante. Si trattava di incidere su pensioni di importo modesto, per far fronte a un problema, indubbiamente urgente, ma i cui termini andavano precisati con dati verificabili, attenendosi a criteri che non possono non sorreggere il giudizio di proporzionalità. Non c’era una prova tecnicamente illustrata della proporzionalità, né della ragionevolezza della misura, proprio perché mancava una documentazione tecnica. La correttezza di questa impostazione è  lentamente stata accolta e, per certi aspetti, è stata successivamente riproposta  dalla Corte in riferimento ad altre questioni. I giudici costituzionali devono prestare attenzione alla fase istruttoria. Se mancano dati necessari per fondare il giudizio di costituzionalità, la Corte non può decidere: può emettere ordinanze istruttorie, che rientrano nei suoi poteri, oppure -e qui si tratta di formule  più recenti che figurano ora tra le norme integrative – può convocare esperti di chiara fama, affinché   illustrino e chiariscano dati che non sono conosciuti ai giudici costituzionali.

Sono quindi convinta che in quella sentenza si seguì un ragionamento corretto: lo ribadisco a rischio di apparire autoreferenziale, perché davvero questa vicenda mi appassiona. Fu corretto arrivare a una dichiarazione secca di illegittimità costituzionale, perché c'erano già stati precisi moniti al legislatore che preannunciavano un simile intervento. Da questo punto di vista, si può parlare di un caso quasi emblematico: per più volte la Corte richiama il legislatore alle sue responsabilità e alla fine  svolge la sua funzione. Il legislatore aveva a disposizione gli strumenti per reagire: infatti ha provveduto con il d.lgs.65/2015, che recepisce le indicazioni della Corte, ripartendo le risorse disponibili, esercitando la sua discrezionalità. La Corte, chiamata di nuovo ad esprimersi sulla nuova misura adottata, ha riconosciuto la proporzionalità del nuovo intervento, con la sentenza n. 250 del 2017.

Rovesciando quelle critiche, nella sentenza 70 cogli allora un buon esempio di dialettica tra Corte e legislatore?

Certo, e mi permetto di rovesciare integralmente le critiche, anche alla luce del fatto che ai pensionati titolari di prestazioni oltre sei volte il minimo, che avevano scelto di ricorrere alla Corte di Strasburgo, quest’ultima ha risposto dichiarando irricevibili i loro ricorsi. La Corte EDU sposa in pieno la giurisprudenza della Corte costituzionale, citandola nella sua argomentazione. Nella sentenza del 2018 si riconosce che le scelte del legislatore italiano sono state consone e c'è proporzionalità nell’intervento sulla perequazione. Si afferma così, secondo me, un principio importante perché nel precedente intervento sulla perequazione venivano colpite soprattutto pensioni modeste. In una fase di ritorno dell’inflazione, come quella che abbiamo appena attraversato, si rivela la perdurante funzione dello strumento ideato dal legislatore per adeguare le pensioni al costo della vita.

Dunque la sentenza 70 si può leggere anche in chiave di dialogo tra Corti nazionali e sovranazionali?

Sì, assolutamente, vedo proprio un cerchio che si chiude. Per questo ho voluto citare la sentenza 70 in uno scritto recente, che riprende le mie osservazioni introduttive, in occasione di un seminario svoltosi l'anno scorso nel palazzo della Consulta. Trattando il tema, molto controverso, delle dichiarazioni di inammissibilità con monito e della tecnica innovativa di rinvio a data fissa che la Corte ha adottato con il noto ‘caso Cappato’, io mi spingo a sottolineare che la dichiarazione secca di incostituzionalità nel caso di cui parliamo ha funzionato, perché il rapporto con il legislatore che ne è conseguito è stato lineare e rispettoso del principio di separazione dei poteri.

Sempre nel 2015 sono arrivate altre due sentenze che possono definirsi “storiche”, per l’importanza dei principi enunciati in una materia, il diritto all’equa retribuzione, oggi al centro del dibattito politico e dottrinale. Le sentenze n. 178 e n. 51 chiariscono il nesso che emerge dalla Costituzione tra libertà sindacale, contrattazione collettiva e diritto all’equa retribuzione, sia nel lavoro privato che nel pubblico impiego: si può dire che parlino anche al legislatore futuro, chiamato a recepire la direttiva 2022/2041?

Con la sentenza 178 c'è stata una vera e propria riscoperta del principio di libertà sindacale, sancito al primo comma dell’art. 39, forse non sempre valorizzato dalla precedente giurisprudenza della Corte. Aver riscoperto questo principio per rimettere in moto la contrattazione collettiva nel settore pubblico mi ha fatto sentire molto “giugniana”;  nel redigere la sentenza ho provato un senso di rinnovata gratitudine per il mio Maestro. Anche in questo caso c'è stata qualche critica in dottrina. Ma si trattava di risolvere questioni complesse, poiché ci muovevamo nel quadro di una giurisprudenza della “crisi”. Come trovare un equilibrio tra la perdita economica inflitta ai lavoratori e le esigenze di contenimento della spesa pubblica? Come ristabilire il diritto all’equa retribuzione nel periodo del blocco della contrattazione? Abbiamo dovuto tenere nella dovuta considerazione le esigenze di risparmio di spesa, interpretando l'intento del legislatore che deve fare i conti con le leggi di bilancio; però questo va fatto sempre nel rispetto del principio di proporzionalità, che richiede misure di carattere temporaneo. “Temporaneità” è un concetto che richiama l’eccezionalità della misura. Se i due pilastri della proporzionalità e della temporaneità vengono meno, la misura deve cessare di svolgere i suoi effetti e si deve tornare alla contrattazione collettiva. C’è in questa decisione la valorizzazione dell’autonomia collettiva e un richiamo forte al collegamento tra diritto di contrattare e diritto a una retribuzione adeguata. Non mi spingo a dire che nel recepire la Direttiva il legislatore debba tenerne conto, ma non c’è dubbio che questi principi si ricavano dalla nostra Costituzione.

Questi principi si trovano anche nella sentenza 51, in cui si valorizza il consolidato criterio della rappresentatività sindacale per selezionare il CCNL “parametro”. E’ una tecnica legislativa diversa dall’erga omnes, che sostiene la contrattazione collettiva di qualità, senza violare l’autonomia collettiva. E’ un modello che si può perfezionare, ma che, direi, si è dimostrato vincente. La rappresentatività sindacale deve essere il perno di un sistema forte di relazioni sindacali pluraliste; ed è un dato ormai misurabile, non è più un concetto solo basato su un dato storico, com’era all’origine, negli anni Settanta. Siamo già a buon punto; si tratta di perfezionare questo percorso.

La sentenza 178 è stata anche un’occasione per valorizzare le fonti internazionali, in un modo affatto inedito rispetto alla precedente giurisprudenza costituzionale. Puoi dirci qualcosa sulla dialettica interna alla Corte in merito? Immagino che non tutti fossero pronti ad una simile apertura, che ha riguardato anche le Convenzioni OIL, tradizionalmente poco utilizzate nel nostro ordinamento.

Non è stato affatto scontato dare spazio alle fonti internazionali in quella sentenza. Alcune fonti familiari per chi pratica la nostra materia, per l’appunto le Convenzioni OIL, non sono universalmente conosciute  e non penso di violare alcun segreto dicendo che alcuni miei colleghi non le avevano mai incrociate nella loro esperienza di studiosi. Ho inteso quindi condividere un sapere tipico della scienza del diritto del lavoro italiano, di nuovo facendo mia la lezione di Giugni. Già nelle prime edizioni del suo manuale di Diritto sindacale si evidenzia come le convenzioni OIL 87 e 98 siano a fondamento del diritto sindacale italiano. I gius-lavoristi hanno familiarità con questo genere di fonti, ma non è detto che questa familiarità sia condivisa da altri.

Ancora una volta sono grata ai colleghi che hanno accettato di darmi fiducia nel seguire questa impostazione orientata a valorizzare le fonti internazionali. Non solo le Convenzioni OIL: era importante richiamare anche la CEDU, perché sappiamo bene quanto il richiamo all'articolo 11 sia foriero di letture espansive non soltanto in dottrina, ma anche nella giurisprudenza di Strasburgo.  Insomma, questa sentenza è stata l’occasione per proporre una ricognizione delle fonti internazionali da valorizzare nel giudizio di costituzionalità. Ciò ha richiesto una riflessione molto approfondita con i miei collaboratori; ricordo lunghe discussioni con loro, sempre molto propositive. Anche per questo, devo dire, la sentenza 178 è una delle decisioni redatte da me che mi ha appassionata di più.

Le fonti internazionali hanno trovato un’ulteriore e più forte legittimazione poi nella sentenza n. 194/18: non solo la Carta sociale europea ma anche la “giurisprudenza” del Comitato europeo dei diritti sociali. Ed in ciò si è colto uno scarto rispetto alla sentenza n. 120/18, adottata solo pochi mesi prima.

Sì, questo leggero scarto è stato colto da una dottrina internazionalista molto raffinata. La sentenza 120 era l’immediato precedente in cui si utilizzava la Carta sociale europea come parametro interposto di costituzionalità. Anche questa era una questione inedita e quindi c'è stato un dibattito molto intenso nel Collegio. La Carta sociale è una fonte frequentata da noi giuslavoristi, ma assai poco conosciuta fuori dal nostro ambiente. Averla proposta all’attenzione della Corte, evidenziando quanto sia importante questa fonte complementare alla CEDU, che dà sostanza ai diritti sociali, nonostante la diversa natura di queste due fonti del Consiglio d’Europa, ha permesso di fare un passo avanti a tutti noi nel Collegio; me compresa, perché una cosa è conoscere e studiare la Carta, altra includerla in un'argomentazione che conduce a un giudizio di costituzionalità. E credo che in effetti nella sentenza 194 si sia perfezionato il riferimento alla Carta rispetto al caso precedente, anche grazie al richiamo al ruolo del Comitato di esperti indipendenti, che andava valorizzato. D’altra parte, gli internazionalisti lo fanno da tempo: si pensi al libro di Palmisano, che era Presidente del CEDS ai tempi della sentenza e che su questo tema ha molto riflettuto.

La sentenza 194 ha aperto la strada ad altre questioni di costituzionalità in materia di licenziamenti, che hanno “riscritto” sia l’art. 18 dello Statuto, sia il decreto legislativo n. 23/15. Non sono mancate critiche di eccessivo interventismo della Corte, quasi si volesse sostituire al legislatore (penso alla questione del “deve” al posto del “può” nella sentenza n. 59/21). Credi sarebbe stato possibile un maggior self restraint?

Bisogna veicolare le informazioni nel modo giusto perché questa è una materia molto delicata. Nella Corte ci sono colleghi accademici che vengono da diverse discipline, ognuno con la propria sensibilità. Quella del giuslavorista è una sensibilità particolare e per me non è stato sempre facile svelare al collegio il ‘magico mondo’ del diritto del lavoro. ‘Magico’ per me che l’ho frequentato appassionatamente, ma che può apparire ad altri un mondo lontano, nonostante sia quello in cui si muovono quotidianamente così tanti attori ‘in carne e ossa’. Sono convinta che la forza della Corte costituzionale viene proprio dalla contaminazione tra le diverse provenienze disciplinari dei giudici e dal principio di collegialità, che io difendo a spada tratta.  Per me affermare determinati principi è stato impegnativo, ma credo abbia prodotto risultati importanti. Alla fine, abbiamo trovato nelle sentenze sui licenziamenti soluzioni che potrebbero indurre il legislatore a rimettere mano alla disciplina. Il problema di fondo è la stratificazione tra normative succedutesi in assenza di un disegno coerente. Insomma, basta confrontare il quadro vigente con la prima legge del 1966, dotata di una sua chiara coerenza interna. Non a caso, dopo tanti anni, è ancora lì e non dimentichiamo che rappresentò il seguito di una sentenza della Corte costituzionale, la n. 45 del 1965, che conteneva un imperioso monito al legislatore. Certo, l’impianto rigoroso della legge 604 era anche figlio di un preciso ambiente culturale, che ispirava i riformatori dell’epoca; un ambiente coeso, nonostante la materia sia sempre stata divisiva. Mentre oggi ci confrontiamo con un contesto assai più frastagliato e confuso.

Come hai appena detto, anche in questa giurisprudenza c’è la ricerca di un dialogo con il legislatore, chiamato espressamente ad intervenire (sia nella sentenza n. 150/20 che nella sentenza n. 183/22) per restituire sistematicità alla materia. Un invito però caduto nel vuoto (e non solo per colpa dell’attuale governo). D’altra parte anche il monito del Consiglio d’Europa, che ha ribadito la contrarietà del Jobs Act alla Carta sociale, è stato del tutto ignorato. Come ti spieghi questa totale inerzia del legislatore su un tema così decisivo?

Sicuramente in questo caso il monito della Corte è rimasto inascoltato. In altri casi invece la risposta c'è stata; come nel caso della perequazione, di cui si parlava prima, in cui il dialogo ha funzionato. In quel caso c'è stata una presa di posizione molto chiara e molto netta della Corte, con una dichiarazione di incostituzionalità che veniva a seguito di un monito forte, volto a porre rimedio a una stratificazione di misure succedutesi nel tempo. Nel caso dei licenziamenti siamo davanti a due atti normativi diversi e le sentenze hanno toccato le varie anime della disciplina; e se vogliamo ciò rende l’intervento del legislatore ancora più necessario. Forse gli interessi toccati da quelle sentenze non trovano un’adeguata rappresentanza? Quello che accade con gli interessi dei lavoratori, vale anche per altri interessi “diffusi”, come quelli per l’ambiente o per altri temi eticamente sensibili? Non sta a me dire perché è difficile in Parlamento costruire un consenso su questi temi. I corpi intermedi possono apparire depotenziati, forse lo sono anche i partiti e in misura diversa, i sindacati. Tutti conducono battaglie importanti, ma si trovano nel mezzo di un difficile crocevia. Il problema è come tenere insieme questi interessi quando la politica non è in grado di recepirli, trovando una sintesi in sede parlamentare.

Certamente proficuo è stato il dialogo con le Corti sovranazionali, specie con la Corte di Giustizia in relazione alle fonti UE, come nel caso della sentenza n. 54/22 sull’accesso al welfare dei cittadini extra-UE. Leggendo questa sentenza si coglie la chiara volontà di valorizzare la Carta dei diritti fondamentali dell’UE come parametro di costituzionalità, per altro su una norma considerata poco rilevante giuridicamente, come l’art. 34.

Anche in questo caso sono molto grata al Collegio, perché quando è arrivata la risposta della Corte di giustizia sul caso relativo all’assegno di natalità, a seguito del nostro rinvio pregiudiziale, per una imprevedibile coincidenza era in discussione poco dopo l'altro caso sull’ANF. Quindi c'è stata una sincronia fra due sentenze che non sarebbe stato facile immaginare all'origine delle due questioni.

Quando sono stata incaricata di seguire la prima questione come relatrice, la decisione di operare il rinvio è stata preceduta da una lunga discussione. Forse quel rinvio non era strettamente necessario, tuttavia, devo riconoscere, non mi è dispiaciuto affatto aver percorso quella strada, d’accordo con il Collegio. Ricordo bene l’emozione nel redigere l’ordinanza di rinvio pregiudiziale, che ha richiesto un grande impegno mio e dei miei assistenti di studio. Dovevamo non solo entrare nelle tecnicalità dei criteri di redazione del rinvio, ma anche cercare di scriverlo in modo tale che il dialogo con i giudici europei si instaurasse davvero. Questo ha richiesto un ragionamento molto approfondito sulle regole di procedura e sulla formulazione dei quesiti. In questo contesto è nato anche il suggerimento di valorizzare il riferimento all’art. 34 della Carta dei diritti. C’è stato consenso sul punto, perché è bene ricordare che il lavoro della Corte è sempre un lavoro collegiale. Credo sia stato anche in questo caso importante valorizzare un raccordo fra fonti diverse, che rendono possibile la massimizzazione delle tutele; ciò specie in un tempo in cui, come dicevo, si indeboliscono i canali tradizionali della rappresentanza politica e diviene faticoso il cammino del legislatore. C’è innanzi tutto, la Costituzione, ma ci sono anche la CEDU e le fonti UE. Queste fonti sono complementari l’una all’altra e così rafforzano la tutela dei diritti fondamentali. Più ci muoviamo in questa prospettiva, più diamo forza ai diritti sanciti dalla nostra Costituzione, non la indeboliamo, ma le forniamo nuova linfa. Poi capisco bene che la Corte di giustizia sia cauta nella risposta al nostro rinvio, riferendosi all’art.34: è chiaro che non avrebbe potuto dire più di quello che ha detto su una norma così impegnativa e ad ampio spettro, che rinvia alla discrezionalità degli Stati. Ma in quella norma c’è il riferimento alle ‘‘prassi e alle legislazioni nazionali’’, che non possono non includere anche le Costituzioni; quindi, si è inteso valorizzare proprio l’integrazione tra le due fonti di più alto livello, quali sono la Costituzione e la Carta. Ed il solo fatto che i giudici europei abbiano ripreso il nostro richiamo, a mio parere è importante. So che su questo alcuni commentatori non sono d'accordo, ma io difendo con convinzione questo punto di vista. Grazie all’impulso della Corte costituzionale, l’art. 34 ha trovato spazio in una sentenza dialogica della Corte di giustizia: è un fatto acquisito che questa norma non è priva di significato e domani potrebbe essere ripresa e produrre altri effetti positivi.

Non posso negare di essere molto orgogliosa di queste due sentenze, che tra l’altro sono state discusse in numerosi incontri internazionali organizzati a ridosso della loro pubblicazione. In uno di questi il Presidente Lenaerts ha rivolto i suoi complimenti alla Corte costituzionale italiana per il fatto di sapersi porre come soggetto dialogante. Dialogante non significa deferente, né tanto meno interlocutore acritico, perché la Corte fonda le proprie decisioni su propri argomenti. Credo che in un momento come quello che attraversiamo possa essere utile riflettere su esempi di questo tipo, che vedono sulla scena Corti proattive, pronte a intervenire per applicare il diritto europeo correttamente e creare un contesto di relazioni armoniose tra giudici nazionali ed europei; questo in un periodo in cui qualche pericolo di sviamento, soprattutto sul tema del primato del diritto europeo, può essere avvistato.

Sono anche molto grata per essere stata accolta con molta attenzione – mi spingo a dire con affetto –  nel recente convegno dell'Associazione degli studiosi di diritto europeo, svoltosi all’Università di Padova, in cui mi è stato chiesto di parlare dei rinvii pregiudiziali proposti dalla Corte costituzionale. Ho scelto di citarli tutti; nel leggerli diacronicamente, si coglie un crescendo di fiducia, come se la Corte imparasse sempre meglio a usare questo strumento. Il che, secondo me, è una cosa molto positiva.

Nella tua attività di giudice costituzionale hai dovuto decidere anche questioni relative ad ambiti diversi da quello di tua elezione. Che ruolo ha giocato la tua sensibilità di lavorista nel confrontarsi con queste tematiche? Penso in particolare al bilanciamento tra valori e principi costituzionali, che è sempre sotteso alle questioni di diritto del lavoro.

Per me ha significato scoprire di poter utilizzare strumenti che mi appartenevano, ma delle cui potenzialità non mi ero pienamente resa conto, prima di questa esperienza meravigliosa che consiste nell’entrare a far parte di un collegio. Io credo che il diritto del lavoro, anche per la storia che ha avuto nel nostro paese, dia ricchezza agli organi collegiali, in questo caso alla Corte costituzionale. E d'altronde ci sono esempi così illustri di giuslavoristi, sia magistrati sia giudici accademici, che hanno dato contributi notevoli alla giurisprudenza; un giudice proveniente dalla Cassazione è scomparso di recente, Francesco Amirante, e mi piace ricordarlo. Riprendere questo filone, rivitalizzarlo, come per fortuna si continua a fare, a mio parere è importante perché quella del giuslavorista è una competenza che arricchisce il Collegio.

Prendiamo proprio il criterio del bilanciamento, che può portare  a individualizzare le sanzioni e a restituire discrezionalità al giudice. Penso, per esempio, a quanto deciso con la sentenza n. 194 del 2018. In quel caso si è affermato che il giudice deve avere discrezionalità, guardando il singolo caso e non deve esserci un automatismo per determinare l’indennizzo. Questo è un tema ricorrente nella giurisprudenza penalistica, che afferma l’urgenza in molti casi di individualizzare le sanzioni e la pena. Questo è solo un esempio, che serve a capire come nel collegio si instaura una pratica di ascolto reciproco tra giudici di provenienza diversa, pratica che io trovo fondamentale.

Il tema del bilanciamento tra principi potenzialmente contrapposti è emerso con forza durante le due grandi crisi che hanno segnato i tuoi anni in Corte: quella economico-finanziaria e quella sanitaria. Anche sul delicato tema dei vaccini si può cogliere una convergenza tra principi costituzionali e sovranazionali?

Il tema si riproduce nella giurisprudenza sulle misure di contenimento della pandemia, che tra l'altro sono state adottate parallelamente in molti paesi europei, come la Corte ha puntualmente documentato. Anche a questo riguardo c’è una convergenza tra le Corti nazionali. Il servizio studi della Corte è molto attivo nel produrre schede di comparazione con altri ordinamenti, importanti per il lavoro dei giudici. Come emerge anche dallo studio di Claire Kilpatrick sulle politiche di austerità, quando ti accorgi che le stesse misure sono adottate nello stesso periodo storico in diversi ordinamenti, devi costatare che le Corti condividono un rischio: rischio della misura di austerità che impoverisce alcuni, rischio della pandemia che attacca tutti contemporaneamente. Quindi più corti nel mondo, in questo caso, dovevano condividere il rischio dell'espansione di un contagio e dovevano prendere decisioni per farlo. E lo hanno fatto con modalità molto simili, perché gli strumenti sono sempre gli stessi: il giudizio di proporzionalità, ovvero la valutazione sulla non irragionevolezza delle misure adottate e sul loro carattere temporaneo. La nozione di proporzionalità evoca una misura di natura eccezionale, che come tale deve essere contenuta.

Io trovo le sentenze sugli obblighi vaccinali equilibrate. Come presidente della Corte le ho condivise. Anche se devo ammettere che le udienze che le hanno precedute sono state per me fra le più  difficili tra quelle che ho presieduto. La voce di chi sosteneva le ragioni dell’incostituzionalità delle misure adottate è stata molto incisiva, talvolta gridata; si può comprendere, trattandosi di misure indubbiamente forti. Ma, ripeto, si è trattato di misure di natura temporanea: lentamente si è tornati alla normalità e in questo percorso la Corte ha saputo leggere e interpretare i risultati della scienza.

In tutte le interviste che hai rilasciato da Presidente della Corte hai sempre sottolineato l’importanza della collegialità, per spiegare le dinamiche interne alla Corte che portano ad una sentenza. Cosa significa per te questo principio e perché ritieni sia di centrale importanza valorizzarlo, anche nella comunicazione verso l’esterno dell’attività della Corte?

Per me, che vengo dal mondo accademico, è stata una scoperta straordinaria. Io non avevo idea di cosa fosse una Camera di Consiglio, non l'avevo mai frequentata. Da quelli che io chiamo i “giudici veri” – i colleghi che provengono dalle magistrature superiori –  ho imparato moltissimo, perché in loro ho osservato e apprezzato una consuetudine di condivisione, un assoluto rispetto dell'opinione degli altri. Sono realmente ‘‘collegiali’’, non per forma. Quindi mi preme in questa occasione davvero spendere una parola di omaggio ai giudici costituzionali che provengono dalle magistrature, perché in loro ho trovato sempre grande competenza e capacità di mettere a disposizione le loro conoscenze. A cominciare da Alessandro Criscuolo, Presidente quando io sono entrata in Corte: un grandissimo giudice di Cassazione, di competenza unanimemente riconosciuta e dotato di un grande garbo, che mi ha manifestato nel trasmettermi i suoi insegnamenti. Era lui a presiedere il collegio al tempo della  sentenza n. 70, che prima abbiamo ricordato; anche in quella occasione, con lui ho avuto scambi molto profondi di opinioni in Camera di Consiglio.  I suoi punti di vista erano sempre molto consapevoli quando si trattavano questioni di diritto del lavoro, perché conosceva a fondo la materia. Alla sua memoria dedico un pensiero riconoscente. La formula della condivisione e della costruzione del consenso è patrimonio comune, ma molto si deve ai giudici provenienti dalle magistrature, che la praticano quotidianamente: è da loro che ho imparato il valore prezioso della collegialità.

Questo valore va difeso, perché trova la sua giustificazione nella peculiare composizione della Corte italiana. La nostra Corte infatti è particolare perché, oltre ad accogliere competenze accademiche fra sé disparate – quindi non solo di estrazione costituzionalistica, il che, come dicevamo prima, rappresenta una ricchezza – è composta da giudici che ho chiamato “veri”, oltre a quelli nominati dal Presidente della Repubblica. Capisco chi difende l'opinione dissenziente quale sinonimo di trasparenza. Però accoglierla nel nostro sistema comporterebbe il fortissimo rischio di una esaltazione di personalità che già sono forti e molto marcate, perché i giudici vengono da prestigiose carriere accademiche, da nomine presidenziali, che di per sé sono un riconoscimento di prestigio,  o, comunque, sono magistrati di grande esperienza.

So bene che è una ricchezza l'opinione dissenziente nei sistemi che la prevedono; ma in quei sistemi la composizione delle Corti è sovente diversa dalla nostra. Può sembrare un discorso banale, ma è un discorso che tiene conto di peculiarità del sistema italiano. Mi è capitato di parlarne con colleghi statunitensi, che in effetti restano sorpresi quando colgono le caratteristiche della nostra Corte. Nella Corte Suprema americana le caratterizzazioni di provenienza politica sono nette. Da noi queste caratterizzazioni, se mai vi fossero, si abbandonerebbero del tutto entrando a far parte del Collegio. Non c’è poi alcuna caratterizzazione politica per i giudici eletti in Parlamento, perché nella votazione delle camere in seduta congiunta è richiesto un quorum talmente alto da escludere un preciso riferimento a una forza politica. L’ho detto più volte e lo ripeto: non ho mai avvertito alcuna forma di pressione politica negli anni del mio mandato. Casomai esiste una “pressione” dovuta alla forte personalità dei giudici, dovuta a una forte convinzione delle proprie opinioni, fondate sulle specifiche competenze di ciascuno. Questa è la forza degli argomenti e della competenza, non della politica.

Per questo io difendo e continuerò a difendere la collegialità e la segretezza della Camera di Consiglio.

Per concludere, se dovessi riassumere in due parole cosa ti resta dell’esperienza in Corte costituzionale.

Innanzitutto, un po’ di nostalgia, devo ammetterlo, delle coinvolgenti discussioni in Camera di Consiglio. Qualche volta si può anche perdere la pazienza e si può perfino alzare la voce. Ma quando accade, poi si chiede scusa e si ritrova subito armonia. Ecco, forse mi manca e mi mancherà proprio questo aspetto delle discussioni in Corte: il passaggio dal confronto, che può essere acceso, al consenso. Un consenso che si deve creare, anche se si vota a maggioranza e manca l’unanimità, nel rispetto delle regole di funzionamento della Corte. Si tratta comunque sempre di un consenso fondato su un principio democratico.

E’ stato molto importane per me, in una fase della mia vita adulta, questo costante esercizio di democrazia. Arrivi in Corte alla fine del tuo percorso professionale (almeno così è stato per me) e impari l’importanza di saper fare un passo indietro, di riconoscere l’opinione dell’altro e farla tua. In Corte devi, certo, affermare il tuo punto di vista, ma devi farlo sempre con equilibrio, senza mai peccare di protagonismo. E questo ti mette alla prova ogni giorno. Si tratta di un esercizio assai utile, che non vorrei smettere di praticare, perché serve nella vita di tutti i giorni e non solo in Corte.

L'altra cosa che mi manca molto, e che spero però non vada del tutto perduta, è la collaborazione con le persone che hanno lavorato con me nella segreteria e come assistenti di studio. Anche con loro c’è stata una costante e profonda condivisione, perché tutti lavoriamo per traguardi comuni. Mi mancheranno le lunghe riunioni in cui si istruiscono le questioni e se ne parla con gli assistenti di studio degli altri giudici, in un costante esercizio di condivisione. Mi mancherà questo ininterrotto apprendimento, nelle materie più disparate, anche molto lontane dalla disciplina di provenienza. Tutto questo ha comportato per me un immenso arricchimento umano, oltre che professionale, che porto con me e custodisco dopo aver lasciato la Corte.

 

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