L’elemento essenziale di differenziazione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato consiste nel vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, da ricercare in base ad un accertamento esclusivamente compiuto sulle concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa. In particolare, mentre la subordinazione implica l’inserimento del lavoratore nella organizzazione imprenditoriale del datore di lavoro mediante la messa a disposizione, a suo favore, delle proprie energie lavorative (operae) ed il contestuale assoggettamento al potere direttivo di costui, nel lavoro autonomo l’oggetto della prestazione è costituito dal risultato dell’attività (opus).
Omissis
Svolgimento del processo
La Corte territoriale di Genova, con sentenza depositata il 13/3/2012, respingeva il gravame interposto da B.P., nei confronti del Consorzio ligure Magazzini Expert a r.l. (COLIMEX), avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede emessa il 14/3/2011, con la quale era stata rigettata la domanda del B. diretta al riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso tra le parti, alla condanna della parte datoriale al pagamento delle relative differenze retributive, nonché all’accantonamento del trattamento di fine rapporto.
Per la cassazione della pronunzia ricorre B.P. articolando cinque motivi.
Il Consorzio ligure Magazzini Expert a r.l. resiste con controricorso.
Motivi della decisione
- Con il primo motivo si deduce la omessa applicazione dell’art. 421 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, ed in particolare, si lamenta che i giudici di entrambi i gradi di merito abbiano affermato che il lavoratore avrebbe solo allegato e chiesto di provare di ricevere direttive e di dovere rispondere del suo operato al presidente della COLIMEX, senza specificare in che cosa consistessero tali direttive ed in che modo dovesse rispondere al presidente; che la Corte di merito avrebbe omesso, senza alcuna motivazione, di esercitare il proprio potere-dovere relativamente all’ammissione delle prove, pervenendo alla decisione della causa sulla scorta di mere presunzioni, senza tenere nella dovuta considerazione le circostanze e la documentazione poste dal lavoratore a fondamento delle proprie domande.
- Con il secondo motivo si denunzia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la nullità della sentenza e/o del procedimento e la omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in relazione agli artt. 115, 416 e 421 c.p.c., per erronea e/o mancata valutazione dei documenti precostituiti, nonché la mancata ammissione delle istanze istruttorie in relazione all’art. 2697 c.c., e si deduce che la sentenza della Corte di merito sarebbe nulla nel punto in cui conferma la sentenza di primo grado “sia in relazione alla erronea valutazione delle prove costituite, sia in relazione alle ammissioni del Consorzio, sia con riguardo alla mancata contestazione dei fatti dedotti”, e che, in violazione del disposto di cui all’art. 115 c.p.c. e art. 2697 c.c., i giudici di seconda istanza avrebbero “disatteso la risultanza probatoria afferente le prove costituite”.
- Con il terzo mezzo di impugnazione si deduce, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio e si assume che la sentenza oggetto del giudizio di legittimità “sia del tutto carente dal punto di vista motivazionale rispetto alla presunta insussistenza di un rapporto di lavoro subordinato”, perché non avrebbe tenuto conto del fatto che la società datrice di lavoro si sarebbe sempre limitata a contestare le domande di parte ricorrente affermando che l’attività svolta dal B. sarebbe stata esercitata “dapprima nella sua qualità di consulente esterno (dal 1997 al 2000) e successivamente di consigliere delegato (dal 2000 al 2005)” e che lo stesso “ha sempre dovuto relazionare solo ed esclusivamente al Consiglio di amministrazione”.
- Con il quarto mezzo di impugnazione si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio consistente nella mancata ammissione delle istanze istruttorie richieste dal ricorrente ed in particolare le prove testimoniali appositamente e specificamente dedotte dal ricorrente, tese alla prova della sussistenza degli elementi della subordinazione, da coordinarsi con le dichiarazioni aventi valore confessorio della controparte.
- Con il quinto motivo si denunzia, in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in ordine alla condanna al pagamento delle spese; in particolare, si osserva che, nel caso di specie, le spese avrebbero dovuto essere almeno compensate a fronte della peculiarità della situazione, anche in considerazione della mancata ammissione delle prove dedotte in primo grado, che avrebbe comportato, a parere del ricorrente, la violazione del diritto di difesa.
- Il primo motivo non è meritevole di accoglimento.
Ed infatti, se, da un lato, è principio consolidato alla stregua degli arresti giurisprudenziali della Corte di legittimità che “è carattere tipico del rito del lavoro il contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità” - per la qual cosa, laddove le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine ed il giudice reputi insufficienti le prove già acquisite “non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o di decadenze in danno delle parti” (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 22305/2007, 2379/2007) -, non può, dall’altro lato, disconoscersi che chi deduce la sussistenza di un rapporto di lavoro connotato dalla subordinazione non possa limitarsi alla semplice deduzione, ma debba fornire prove adeguate a sostegno. Nel caso di specie, non risulta che tali prove siano state addotte dalla parte ricorrente.
- Il secondo motivo è inammissibile sotto diversi profili. Ed invero, innanzitutto, è da ribadire che il ricorso per cassazione, in quanto ha ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera chiara ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione. Il rispetto del principio di specificità dei motivi comporta altresì l’esposizione di argomentazioni chiare ed esaurienti, illustrative delle dedotte inosservanze di norme o principi di diritto, che precisino in che modo abbia avuto luogo la violazione ascritta alla pronunzia di merito (cfr., tra le molte, Cass. n. 23675/2013), poiché è solo l’esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura (v. Cass. nn. 21239/2015; 25044/2013; 17739/2011).
Le censure sollevate con il secondo mezzo di impugnazione, in riferimento dell’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5, per nullità della sentenza e/o del procedimento, alle quali si aggiunge la dedotta omessa motivazione in relazione agli artt. 115, 416, 421 c.p.c. e art. 2697 c.c., non appaiono puntuali, poiché non chiariscono il motivo per il quale la sentenza impugnata sarebbe nulla; inconferente appare, inoltre, il riferimento alla norma dell’art. 416 c.p.c., che disciplina la costituzione del convenuto, in ordine alla quale nessuna censura è stata sollevata nei precedenti gradi di giudizio.
Ciò posto, per quanto più in particolare attiene al dedotto vizio di motivazione, va ribadito che i difetti di omissione e di insufficienza della motivazione sono configurabili solo quando, dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza oggetto del giudizio, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando si evinca l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza, del procedimento logico che ha indotto il giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poiché, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito finalizzata ad ottenere una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (cfr., ex plurimis, Cass., S.U., n. 24148/2013; Cass. n. 14541/2014).
Nel caso di specie, le doglianze articolate dalla parte ricorrente come vizio di motivazione appaiono inidonee, perché palesemente tese ad ottenere un nuovo esame del merito, anche con riferimento alla valutazione delle prove, a scalfire la coerenza della sentenza sotto il profilo dell’iter logico-giuridico.
- Il terzo motivo non è fondato, poiché i giudici di merito hanno preso in considerazione gli elementi che connotano la subordinazione e, dopo avere vagliato le risultanze istruttorie, sono pervenuti, attraverso un percorso motivazionale del tutto coerente, ad escluderne la sussistenza con riferimento alla fattispecie.
Al riguardo, è da premettere che il caso all’esame ripropone la vexata quaestio della distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e rapporto di lavoro subordinato in una fattispecie che, per alcuni versi, presenta dei connotati peculiari.
Deve, del resto, prendersi atto che oggi i due cennati tipi di rapporto non compaiono che raramente nelle loro forme e prospettazioni “primordiali” e più semplici, in quanto gli aspetti molteplici di una vita quotidiana e di una realtà sociale in continuo sviluppo e le diuturne sollecitazioni che ne promanano hanno insinuato in ognuno di essi elementi per così dire perturbatori che appannano, turbano, appunto, la primigenia simplicitas del “tipo legale” e fanno dei medesimi, non di rado, qualcosa di ibrido e, comunque, di difficilmente definibile.
Per cui la qualificazione sub specie di locatio operis o locatio operarum e la sua sussunzione sotto l’uno o l’altro nomen iuris diventa più delicata e richiede una più approfondita opera di accertamento della realtà fattuale e di affinamento di quei momenti che la teoria ermeneutica caratterizza come subtilitas explicandi e, soprattutto, come subtilitas applicandi.
Soccorre, peraltro, in questa actio finium regundorum tra lavoro autonomo e subordinato l’insegnamento della giurisprudenza che, intervenendo con molta consapevolezza sul tema, ha dato alla dibattuta questione una soluzione che può, nei principi, ormai dirsi consolidata.
É noto, difatti, che, secondo il richiamato e consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, l’elemento essenziale di differenziazione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato consiste nel vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, da ricercare in base ad un accertamento esclusivamente compiuto sulle concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa.
In particolare, mentre la subordinazione implica l’inserimento del lavoratore nella organizzazione imprenditoriale del datore di lavoro mediante la messa a disposizione, in suo favore, delle proprie energie lavorative (operae) ed il contestuale assoggettamento al potere direttivo di costui, nel lavoro autonomo l’oggetto della prestazione è costituito dal risultato dell’attività (opus): ex multis, Cass. nn. 12926/1999; 5464/1997; 2690/1994; e, più di recente, Cass. n. 4770/2003; 5645/2009, secondo cui, ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato oppure autonomo, il primario parametro distintivo della subordinazione, intesa come assoggettamento del lavoratore al potere organizzativo del datore di lavoro, deve essere accertato o escluso mediante il ricorso agli elementi che il giudice deve concretamente individuare dando prevalenza ai dati fattuali emergenti dalle modalità di svolgimento del rapporto (cfr. pure, tra le molte, Cass. nn. 1717/2009, 1153/2013).
In subordine, l’elemento tipico che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato è costituito dalla subordinazione, intesa, come innanzi detto, quale disponibilità del prestatore nei confronti del datore di lavoro, con assoggettamento alle direttive dallo stesso impartite circa le modalità di esecuzione dell’attività lavorativa; mentre, è stato pure precisato, altri elementi - come l’assenza del rischio economico, il luogo della prestazione, la forma della retribuzione e la stessa collaborazione - possono avere solo valore indicativo e non determinante (v. Cass. n. 7171/2003), costituendo quegli elementi, ex se, solo fattori che, seppur rilevanti nella ricostruzione del rapporto, possono in astratto conciliarsi sia con l’una che con l’altra qualificazione del rapporto stesso (fra le altre - e già da epoca risalente - Cass. nn. 7796/1993; 4131/1984).
Ciò precisato, è da aggiungere che, anche in ordine alla questione relativa alla qualificazione del rapporto contrattualmente operata, sovviene l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità. Alla cui stregua, onde pervenire alla identificazione della natura del rapporto come autonomo o subordinato, non si può prescindere dalla ricerca della volontà delle parti, dovendosi tra l’altro tener conto del relativo reciproco affidamento e di quanto dalle stesse voluto nell’esercizio della loro autonomia contrattuale.
Pertanto, quando i contraenti abbiano dichiarato di volere escludere l’elemento della subordinazione, specie nei casi caratterizzati dalla presenza di elementi compatibili sia con l’uno che con l’altro tipo di prestazione d’opera, è possibile addivenire ad una diversa qualificazione solo ove si dimostri che, in concreto, l’elemento della subordinazione si sia di fatto realizzato nello svolgimento del rapporto medesimo (v., fra le molte, e già da epoca meno recente, Cass. nn. 4220/1991; 12926/1999).
Il nomen iuris eventualmente assegnato dalle parti al contratto non è quindi vincolante per il giudice ed è comunque sempre superabile in presenza di effettive, univoche, diverse modalità di adempimento della prestazione (Cass. n. 812/1993).
Al proposito, la Corte di legittimità ha avuto, altresì, modo di ribadire che, ai fini della individuazione della c.d. natura giuridica del rapporto, il primario parametro distintivo della subordinazione deve essere necessariamente accertato o escluso mediante il ricorso ad elementi sussidiari che il giudice deve individuare in concreto, dando prevalenza ai dati fattuali emergenti dall’effettivo svolgimento del rapporto, essendo il comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto elemento necessario non solo ai fini della sua interpretazione (ai sensi dell’art. 1362 c.c., comma 2), ma anche ai fini dell’accertamento di una nuova e diversa volontà eventualmente intervenuta nel corso dell’attuazione del rapporto e diretta a modificare singole sue clausole e talora la stessa natura del rapporto lavorativo inizialmente prevista, da autonoma a subordinata; con la conseguenza che, in caso di contrasto fra i dati formali iniziali di individuazione della natura del rapporto e quelli di fatto emergenti dal suo concreto svolgimento, a questi ultimi deve darsi necessariamente rilievo prevalente nell’ambito di una richiesta di tutela formulata tra le parti del contratto (Cass. nn. 4770/2003; 5960/1999). Del resto, come è stato osservato, il ricorso al dato della concretezza e della effettività appare condivisibile anche sotto altro angolo visuale, ossia in considerazione della posizione debole di uno dei contraenti, che potrebbe essere indotto ad accettare una qualifica del rapporto diversa da quella reale pur di garantirsi un posto di lavoro.
Più di recente, con la sentenza n. 7024/2015, questa Corte ha ribadito che gli indici di subordinazione sono dati dalla retribuzione fissa mensile in relazione sinallagmatica con la prestazione lavorativa; l’orario di lavoro fisso e continuativo; la continuità della prestazione in funzione di collegamento tecnico organizzativo e produttivo con le esigenze aziendali; il vincolo di soggezione personale del lavoratore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia; l’inserimento nell’organizzazione aziendale.
E sul lavoratore che intenda rivendicare in giudizio l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato grava l’onere di fornire gli elementi di fatto corrispondenti alla fattispecie astratta invocata (cfr., tra le molte, Cass. n. 11937/2009).
Tutto ciò premesso, deve osservarsi che, nella fattispecie, la Corte di merito ha tenuto conto che il lavoratore non ha fornito la prova relativa al requisito della eterodirezione; ha esaminato gli elementi qualificanti la subordinazione, quali enunciati dalla Corte di legittimità, pervenendo (come innanzi già sottolineato) attraverso la delibazione dei punti di emersione probatoria ed alla luce dei richiamati, costanti insegnamenti giurisprudenziali con un iter motivazionale del tutto coerente, ad escluderne la sussistenza con riferimento alla fattispecie.
- Il quarto motivo non è meritevole di accoglimento per tutto quanto in precedenza osservato.
- Il quinto motivo non può essere accolto.
Invero, anche prescindendo dall’erroneità del parametro adoperato (il n. 5 dell’art. 360 c.p.c., anziché il n. 3 dello stesso articolo, trattandosi, all’evidenza, di una eventuale violazione di legge, come più volte evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità), i giudici di merito hanno correttamente applicato il criterio della soccombenza. Ed il giudice ha l’obbligo di espressa motivazione, in tema di spese processuali, solo nel caso di compensazione e non già quando applica la regola della soccombenza (cfr., tra le molte, Cass. n. 2730/2012).
- Per tutto quanto esposto, il ricorso va rigettato.
- Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori come per legge.
Così deciso in Roma, il 5 luglio 2017.
Depositato in Cancelleria il 11 luglio 2018.