Testo integrale con note e bibliografia
Testo della sentenza 13 dicembre 2017 C-385
Testo della sentenza 20 gennaio 2009 C-350-06
Testo della sentenza 6 novembre 2018 C-619 2016
1. La questione decisa dal Tribunale di Milano.
La decisione in commento trova origine nelle rivendicazioni del lavoratore dipendente di un importante gruppo imprenditoriale operante nel comparto dell’energia in ordine all’istituto del c.d. “riporto” delle ferie maturate e non godute.
Ad occupare il giudice del lavoro milanese è infatti l’interpretazione dell’art. 10 d.lgs. 66/2003, nel particolare caso del c.d. trascinamento delle ferie pregresse. Nello specifico, il lavoratore domandava la dichiarazione di illegittimità del provvedimento di collocazione forzata in ferie adottato dalla società datrice di lavoro che, in osservanza del limite temporale per la fruizione delle ferie in caso di trascinamento, fissato dall’art. 31 del c.c.n.l. Energia e Petrolio al 31 marzo dell’anno successivo alla maturazione, aveva collocato in ferie coatte il lavoratore.
Il ricorrente, allegando la nullità della disposizione contrattual-collettiva asseritamente formulata in aperta violazione dell’art. 10, comma 1, del d.lgs. 66/2003, chiedeva la dichiarazione di nullità della clausola contrattuale e l’attribuzione di n. 26 giorni di ferie a titolo di risarcimento in forma specifica, in quanto il riposo era stato da questi fruito in un intervallo temporale unilateralmente fissato dal datore di lavoro.
L’inquadramento della questione impone all’interprete la ricerca di un delicato equilibrio tra le esigenze organizzative dell’impresa e le necessità di recupero psico-fisico del lavoratore. A tal fine, non potrà prescindersi dall’attento esame delle fonti di plurimi livelli, anche al fine di individuare i principi dettati in materia di c.d. riporto delle ferie. Alla disposizione costituzionale dell’art. 36 Cost., comma 3, che sancisce il diritto alle ferie e la sua irrinunciabilità, si affiancano infatti regole di derivazione sovranazionale ed euro-unitaria. Tale quadro è arricchito dalla giurisprudenza della Corte di Lussemburgo e dei giudici di merito.
2. La disciplina del diritto alle ferie e l’istituto del c.d. trascinamento: il mosaico delle fonti di livello costituzionale, di derivazione internazionale ed euro-unitaria nel solco della giurisprudenza della Corte di Giustizia UE.
Se per lungo tempo la disciplina dell’orario di lavoro nell’ordinamento italiano ha trovato consacrazione nel R.D. 15 marzo 1923, n. 692, così come integrato dai relativi regolamenti di attuazione (nn. 1955, 1956 e 1957 del 1923), la successiva entrata in vigore degli artt. 2107 e 2018 cod. civ. non ha significativamente alterato l’originaria impostazione della disciplina dell’orario massimo giornaliero. Quanto alla regolazione del diritto alle ferie, questa non troverà traccia nella normativa in tema di tempo di lavoro sino all’entrata in vigore del codice civile.
Al diritto alle ferie, come è noto, il legislatore codicistico dedica la disposizione dell’art. 2109 cod. civ., comma 2, in forza del quale il lavoratore ha diritto «ad un periodo di ferie annuali retribuito, possibilmente continuativo, nel tempo che l’imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del prestatore di lavoro». La disposizione rimette la determinazione della durata di tale periodo alla legge, ai contratti collettivi, agli usi, alla valutazione equitativa. Quanto alla disciplina applicabile alle ferie maturate e non godute, il codice civile taceva sul punto, lasciando all’autonomia delle parti la regolazione degli interessi in gioco.
Proprio la materia della durata delle ferie è oggetto di plurimi interventi di matrice sovranazionale. In ordine di tempo, dapprima è intervenuta l’Organizzazione Internazionale del Lavoro che ha dedicato proprio alla disciplina del tempo di lavoro, a ragione della stretta connessione tra la regolazione del recupero delle energie-psicofisiche ed il tema della tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, un significativo numero di Convenzioni (in tutto n. 19).
Il diritto alle ferie è in particolare oggetto della Convenzione OIL n. 132/1970, ratificata dall’Italia con legge n. 157/1981. Caratteristica comune a tutte le convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, come si sa, è la definizione di standard minimi comuni per gli Stati aderenti: così la Convenzione n. 132 fissa, individuandola in n. 3 settimane consecutive, la misura minima della durata delle ferie annuali (art. 3, c. 3).
La Convenzione OIL in commento è, in ordine di tempo, la prima fonte utile al fine di individuare la disciplina applicabile all’istituto del trascinamento. Tuttavia, alla questione della modalità di fruizione delle ferie trascinate e non godute venivano dedicate disposizioni formulate in modo alquanto primitivo dall’atto convenzionale, caratterizzate, peraltro, dalla libera derogabilità ad opera di un mero accordo individuale.
Gli artt. 8 e 9 della Convenzione, infatti, si preoccupavano innanzitutto di chiarire che la fruizione del congedo annuale avrebbe potuto sì essere soggetta a frazionamento, ma nell’osservanza del limite della fruizione continuativa per n. 2 settimane. Tale limite veniva però considerato derogabile dall’accordo individuale tra datore di lavoro e lavoratore, collocandosi dunque le parti del rapporto di lavoro su un pianto di piena parità contrattuale (art. 8). Quanto alle ferie maturate e non godute, l’art. 9 era improntato ad una ulteriore confusione espositiva e ad un discutibile equilibrio degli interessi in gioco. La menzionata disposizione, infatti affermava che «la parte ininterrotta di congedo annuale pagato dovrà essere accordata e usufruita entro il termine di un anno al massimo, e il resto del congedo annuale pagato entro il termine di diciotto mesi, al massimo, a partire dalla fine dell’anno che dà diritto al congedo». Il paragrafo 2 dell’art. 9 aggiungeva però che «ogni parte di congedo annuale che superi un minimo stabilito potrà, con il consenso della persona impiegata interessata, essere rinviata, per un periodo limitato, oltre i limiti indicati al paragrafo 1 del presente articolo. Il minimo di congedo che non potrà essere soggetto a tale rinvio e il periodo limitato suscettibile di rinvio saranno stabiliti dalle autorità competenti, previa consultazione delle organizzazioni interessate degli imprenditori e dei lavoratori, sia mediante trattative collettive, sia con qualsiasi altra modalità conforme alla pratica nazionale e che appaia adeguata, tenuto conto delle condizioni specifiche di ciascun paese».
La regolazione internazionale dell’istituto del trascinamento delle ferie era dunque rimessa alla modulazione ad opera delle organizzazioni sindacali, sotto la supervisione delle autorità nazionali.
Sul piano dell’ordinamento comunitario, andava parallelamente sviluppandosi l’interesse per la disciplina del tempo di lavoro. Sul tema si esprimeva il testo dell’art. 120 del Trattato di Roma, trasmigrato nell’art. 142 TCE, oggi ricompreso nel testo dell’art. 158 TFUE. La disposizione fu fortemente voluta dalla Francia, dotata di una legislazione particolarmente avanzata in materia di congedi annuali e preoccupata per la propria competitività nel nuovo contesto del mercato interno. La disposizione obbligava gli Stati membri a «mantenere l’equivalenza esistente nei regimi di congedi retribuiti», in una chiave di tutela della garanzia di una genuinità di concorrenza.
La carenza di una precisa base giuridica in tema di organizzazione del tempo di lavoro si riverberava sulla natura degli strumenti normativi adottati. Il tema trovava originariamente espressione in meri atti di c.d. Soft Law. La Raccomandazione del Consiglio n. 75/457/CEE e la Risoluzione del Consiglio 18 dicembre 1979, che costituivano le prime manifestazioni di interesse in tema di tempo di lavoro in ambito comunitario, si limitavano infatti a rivolgere agli Stati membri l’invito a predisporre limitazioni adeguate al tempo di lavoro.
Tali prescrizioni, seppur minimali, mostravano la chiara propensione del legislatore comunitario per l’instaurazione di un nesso tra la materia del tempo di lavoro e la tutela della salute e sicurezza del lavoratore. Un nesso che avrebbe manifestato chiaramente la propria forza propulsiva nelle vere e proprie direttive in materia, introdotte in ambito comunitario a seguito delle opportune estensioni di competenza.
Con l’adozione della Direttiva 93/104/CE, la disciplina del diritto alle ferie come diritto fondamentale veniva finalmente a saldarsi alla prescrizione costituzionale. Il diritto riconosciuto dall’art. 36, c. 3 veniva dunque valorizzato per il tramite della regolazione comunitaria, che innalzava la durata minima di fruizione delle ferie annuali a n. 4 settimane.
Successivamente, la direttiva 93/104/CE sarebbe stata ampliata nel campo di applicazione dalla direttiva 2000/34/CE, confluendo nella direttiva 2003/88/CE, che le ha entrambe abrogate.
Oggi, il diritto alle ferie è disciplinato dall’art. 7 della direttiva n. 88 che impone agli Stati membri, di prendere le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici «di ferie annuali retribuite di almeno 4 settimane, secondo le condizioni di ottenimento e di concessione previste dalle legislazioni e/o prassi nazionali» (par. 1), affermando che tale «periodo minimo di ferie annuali retribuite non può essere sostituito da un’indennità finanziaria, salvo in caso di fine del rapporto di lavoro.»
Per comprendere l’esatta portata prescrittiva della disposizione della direttiva va ricordato che, in coerenza con la progressiva valorizzazione dei diritti afferenti alla sfera sociale in ambito comunitario, il diritto alle ferie ha assunto la configurazione di diritto sociale fondamentale espressamente riconosciuto dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, il cui art. 31, par. 2, sancisce il diritto di ogni lavoratore «alla limitazione della durata massima del lavoro, a periodi di riposo giornalieri e settimanali e a ferie annuali retribuite».
Le implicazioni della veste di diritto sociale fondamentale individuato tanto nella Carta Costituzionale che nel catalogo euro-unitario dei diritti fondamentali – anch’esso di carattere cogente, dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, che ne ha assicurato lo stesso valore giuridico dei Trattati (art. 6 TUE) – si sono riscontrate nella più recente giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, che ha avuto modo di pronunciarsi su una pluralità di questioni pregiudiziali in materia di legittimità comunitaria delle misure adottate dagli Stati membri in attuazione della direttiva n. 88/2003. I temi sottesi ai plurimi interventi dei giudici di Lussemburgo afferiscono alla complessa tematica del bilanciamento di interessi che gli Stati membri, con le misure di attuazione della direttiva, hanno predisposto. Da un lato, infatti, l’adesione all’ordinamento euro-unitario impone agli Stati di garantire l’effettività della fruizione del diritto alle ferie; dall’altro, pare comunque opportuno rendere attuabili limitazioni che il datore di lavoro concretamente apporta alle tempistiche per la fruizione del diritto di cui si discute, nell’esercizio del proprio potere organizzativo. Del resto, proprio tale potestà organizzativa è un corollario della libertà di iniziativa economica dell’imprenditore, che anch’essa risulta fortemente tutelata a livello euro-unitario.
Le decisioni in questione, che manifestano una chiara propensione della Corte di giustizia per la valorizzazione della genuinità della fruizione del diritto alle ferie, possono offrire spunti anche per l’interpretazione della sentenza milanese che si commenta. Proprio di recente, infatti, la Corte di giustizia ha adottato una serie di decisioni che in qualche modo delineano i contorni degli obblighi del datore di lavoro nel caso di ferie maturate e non godute.
Concisamente, la Corte ha sancito l’illegittimità della legislazione tedesca nella parte in cui prevedeva che il lavoratore avrebbe perso il proprio diritto alle ferie non godute (e alla relativa monetizzazione) nel caso di mancata richiesta da parte dello stesso, censurando tale legislazione in quanto mancava di predisporre misure atte a verificare che il datore di lavoro avesse messo il lavoratore in condizioni di fruire del diritto alle ferie stesso, informandolo al riguardo.
Da ultimo, la Corte di giustizia ha stabilito che la disciplina nazionale che preveda un diritto alle ferie condizionato alla fruizione dello stesso entro un periodo di tempo determinato, ovvero che ne preveda l’estinzione alla scadenza di un periodo di riporto, risulta compatibile con la lettera della direttiva n. 88/2003 purchè il lavoratore che perde il diritto alle ferie annuali abbia avuto la possibilità effettiva di fruire del diritto menzionato.
In altre parole, in capo al datore di lavoro grava un obbligo di informazione e di adozione di misure idonee a rendere effettivo e genuino l’esercizio del diritto alle ferie.
Nondimeno, è la stessa Corte a chiarire che da tale obbligo di attivazione gravante in capo al datore di lavoro non si potrebbe dedurre che questi debba imporre al dipendente la fruizione delle ferie da questi maturate: una volta assolto con diligenza tale obbligo di trasparenza e informazione nei confronti del lavoratore, la Corte ritiene legittima l’estinzione del diritto alle ferie e finanche la mancata corresponsione della relativa indennità.
Il modus operandi della Corte di giustizia non pare d’altro canto difforme dallo stesso bilanciamento di interessi cristallizzato dal legislatore codicistico nell’art. 2109 cod. civ.
In particolare, nel definire le concrete modalità di fruizione delle ferie, la menzionata disposizione è cristallina nell’affermare che il diritto al reintegro delle energie psicofisiche e alla distensione psico-sociale che deriva dalla fruizione delle ferie non può che esercitarsi nell’alveo delle esigenze organizzative dell’imprenditore, il quale determina la collocazione temporale per la fruizione del congedo annuale.
Al fine di contrastare un esercizio abusivo di tale potere, in aggiunta alla prescrizione che impone la fruizione di almeno due settimane delle ferie maturate nell’anno di maturazione, salva diversa previsione dei contratti collettivi, l’art. 2019 c.c. obbliga l’imprenditore alla comunicazione preventiva della collocazione temporale del periodo assegnato al lavoratore per la fruizione delle ferie.
3. La fruizione delle ferie in caso di trascinamento dall’anno precedente tra disciplina di fonte legale e collettiva.
Le novità introdotte dal legislatore europeo, seppur con ritardo , venivano recepite dal legislatore italiano con l’adozione del d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66. Il d.lgs. n. 66, più volte rimaneggiato in chiave di maggiore flessibilizzazione in materia di orario, in una logica di maggiore attenzione alle esigenze organizzative dell’impresa, nella materia della disciplina del diritto alle ferie pare tendere ad un punto di equilibrio tra la rigidità prescrittiva della legge e la malleabilità del contratto collettivo.
Come noto, il ricorso alla tecnica del rinvio da parte della legge al contratto collettivo, ha subito in ambito giuslavoristico un significativo incremento nell’ultimo ventennio, tanto nell’ambito della legislazione contrattuale, tanto nell’ambito della regolazione del mercato del lavoro.
Per quanto concerne il d.lgs. n. 66 2003, esso effettua plurimi rinvii alla contrattazione collettiva: ne sono esempio l’artt. 1, co. 2, lett. e), n. 2; l’art. 3, co. 2, prima parte; l’art.4, co.1, l’art. 5, co. 3, e 4, se ci si riferisce soltanto alle prime disposizioni del decreto.
Riguardo alla materia del diritto alla fruizione di un periodo di ferie annuali, assume centralità l’art. 10 che, a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 1, comma 1, lett. d del d.lgs. 19 luglio 2004, n. 23, statuisce che: «fermo restando quanto previsto dall’art. 2109 codice civile, il prestatore di lavoro ha diritto ad un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro settimane. Tale periodo, salvo quanto previsto dalla contrattazione collettiva o dalla specifica disciplina riferita alle categorie di cui all’art.2, comma 2, va goduto per almeno due settimane consecutive in caso di richiesta del lavoratore, nel corso dell’anno di maturazione e, per le restanti due settimane, nei 18 mesi successivi al termine dell’anno di maturazione».
Dunque, i plurimi rinvii alla contrattazione collettiva operati dall’art. 2019 e dall’art. 10, rispondono a molteplici finalità: ferma restando la titolarità del diritto alla fruizione di n. 4 settimane di ferie, la contrattazione collettiva è in primo luogo chiamata ad individuare un trattamento di miglior favore, ben potendo individuare ex art. 2109, co. 2, una misura maggiore alle quattro settimane delle ferie spettanti nel comparto di riferimento. Inoltre, la contrattazione collettiva risponde alla finalità di determinare un equilibrio che si attenga alla particolare realtà organizzativa di riferimento tra l’interesse del lavoratore a fruire in un secondo tempo delle ferie maturate nell’anno e le esigenze di programmazione organizzativa dell’imprenditore. Il legislatore, ferma restando la previsione di due settimane obbligatorie e consecutive di ferie annuali, fissa il termine dei 18 mesi successivi alla maturazione per fruire delle ferie “trascinate” dall’anno precedente, ma rimette al contratto collettivo applicato la definizione di una diversa disciplina del contemperamento degli interessi in gioco.
Se il rinvio alla contrattazione collettiva nel caso dell’art. 2109 c. 1 per l’individuazione di una misura diversa della durata delle ferie risponde ad una funzione derogatoria in senso migliorativo, più problematica risulta la determinazione della natura della deroga nel caso delle ferie maturate e non godute. Se la legge infatti individua nei 18 mesi successivi alla maturazione l’argine temporale massimo per la fruizione delle ferie c.d. trascinate dall’anno precedente, il rinvio al contratto collettivo sembrerebbe aprire la via ad un diverso assetto di interessi, sia in un senso più favorevole al lavoratore, con una conseguente estensione ulteriore del periodo, sia in un senso maggiormente restrittivo, vincolando la possibilità di godere delle ferie trascinate in un intervallo temporale inferiore ai mesi 18.
4. Il contemperamento di interessi nel caso di specie.
Alla luce della ricostruzione sopra esposta, appare opportuno tornare all’analisi del caso di specie, che si concentra proprio sulla questione del trascinamento delle ferie maturate e non godute e sul tema dei limiti legali e contrattuali che arginano la libertà del lavoratore di fruirne in un secondo tempo, ferma restando la titolarità del datore di lavoro di esercitare un potere organizzativo nella programmazione di tali periodi di riposo.
Quanto alla ricostruzione in fatto, il rapporto di lavoro intercorrente tra il lavoratore e la società si caratterizzava per una durata pluriennale, nel corso della quale il ricorrente aveva accumulato ferie maturate e non godute. Le ferie maturate e non godute antecedentemente al 2003, esse erano state monetizzate dal datore di lavoro in perfetta osservanza della disciplina legale al tempo vigente.
Per quanto concerne invece le ferie maturate dal lavoratore successivamente, questi aveva regolarmente fruito nel 2018 di n. 28 giorni di ferie nel periodo estivo, per residuando un ulteriore ammontare di ferie maturate e non godute pari a n. 26 giorni.
La controversia si sviluppava dunque sulle modalità e sulle tempistiche di fruizione delle ferie trascinate dall’anno precedente.
Il c.n.n.l. Energia e Petrolio, applicato al rapporto di lavoro di cui si discute, rappresenta proprio uno degli esempi che dell’art. 10 d.lgs. 66/2003 offre un’interpretazione applicativa derogatoria in peius, in quanto prevede la possibilità di fruire delle ferie maturate nell’anno precedente entro il 31 marzo dell’anno successivo. Tuttavia, nel caso di specie la disposizione in questione non era stata, per vero, applicata: infatti le parti avevano inutilmente lasciato decorrere il termine fissato dalla stessa contrattazione collettiva. Solo in un momento successivo al decorso del termine primaverile del 31 marzo 2018, il datore di lavoro aveva provveduto a collocare il lavoratore in ferie c.d. “forzate” nel novembre dello stesso anno, con disattivazione del badge aziendale e divieto di accesso ai locali aziendali.
Sulle domande avanzate dal ricorrente, il giudice del lavoro di Milano prende una posizione in primo luogo di natura processuale.
È infatti è indubbio che la disciplina della limitazione temporale apposta alla fruizione delle ferie oggetto di trascinamento prevista dal c.c.n.l. non era stata, nel caso di specie, applicata. Il giudice accoglie dunque in via pregiudiziale l’eccezione di parte convenuta, riscontrando una carenza di interesse ad agire del ricorrente. In altre parole, se l’art. 31 c.c.n.l. Energia e Petrolio non ha, nella vicenda in esame, trovato applicazione, viene a mancare l’interesse del ricorrente a vederne accogliere la domanda di nullità parziale ex. art. 1419, c. 2.
Se la sentenza in commento avrebbe potuto concludersi limitandosi alle mere considerazioni processuali sul tema della carenza di quel presupposto dell’azione che è l’interesse ad agire, fortunatamente, il giudice del lavoro provvede ad abudantiam a pronunciarsi anche nel merito.
Ciò a ragione della rilevanza della questione giuridica sottesa alla causa che, al di là delle strategie processuali di parte, risulta meritevole di approfondimento.
Il thema decidendum si sposta allora dapprima sulla legittimità della deroga in peius realizzata dalla disposizione del contratto collettivo di comparto; successivamente, sulla legittimità del provvedimento datoriale di collocazione in ferie forzose del lavoratore, riscontrando il giudice la correttezza della condotta datoriale nel caso di specie.
Nello specifico, l’organo giudicante ritiene non condivisibile la tesi dell’inderogabilità in peius dell’art. 10 d.lgs. 66/2003 in quanto la concessione delle ferie eccedenti il periodo di congedo obbligatorio bisettimanale deve essere improntata ai canoni dell’art. 2109, comma 2, cod. civ. che ne condiziona la concessione non soltanto al ricorrere degli interessi del lavoratore ma anche alla debita considerazione delle esigenze dell’impresa. La ricerca di un tale compromesso tra gli interessi in gioco è stata, nel caso di specie, delegata all’autonomia collettiva che, eseguendo il mandato dei lavoratori e della parte datoriale, ha determinato un termine per la fruizione delle ferie maturate e non godute anteriore al diciottesimo mese successivo alla maturazione delle stesse.
Se si dovesse poi valutare la condotta datoriale alla stregua della buona fede e della correttezza, aggiunge l’organo decidente, non si riscontra nel caso di specie alcuna violazione di tali parametri, in quanto la collocazione forzosa in ferie del lavoratore non è avvenuta arbitrariamente, ma in esito ad una programmazione annuale che lo stesso lavoratore aveva concorso a determinare per il tramite del sistema informatico aziendale. Infatti, all’interno di tale piattaforma digitale, i lavoratori indicano la collocazione temporale preferita per la fruizione delle ferie.
Se dunque il periodo individuato per la fruizione delle ferie maturate e non godute era da tempo noto al lavoratore, il datore di lavoro non ha contravvenuto alle regole di buona fede e correttezza che governano il rapporto di lavoro.
5. Riflessioni conclusive.
L’equilibrata presa di posizione del giudice nel caso di specie manifesta la coerenza con gli orientamenti della Corte di giustizia dell’Unione europea.
Tale giurisprudenza non viene menzionata nella decisione in commento, eppure individua i contorni della correttezza della condotta datoriale. Allorquando infatti il datore di lavoro assolva ai doveri di informazione e trasparenza nei confronti del lavoratore, indispensabili presidi all’effettività del diritto alle ferie, egli sarà esonerato tanto dal risarcimento in forma specifica, che nel caso di specie avrebbe comportato la “restituzione” delle giornate di ferie coattivamente imposte, tanto dalla corresponsione della indennità monetaria sostitutiva.
La questione giuridica esaminata nella decisione in commento pone tuttavia, a parere di chi scrive, sotto la lente di ingrandimento dell’interprete alcune contraddizioni.
In primis, sarebbe auspicabile che il ricorso da parte del legislatore alla tecnica del rinvio al contratto collettivo fosse accompagnato dalla premura di chiarire caso per caso la questione della legittimità di deroghe peggiorative alla disciplina legale.
In secondo luogo, ci si domanda se l’art. 10 d.lgs. 66/2003 sia pienamente conforme alla lettera della direttiva 2003/88/CE. Se è vero che la Corte di giustizia non si è spinta a negare la legittimità delle legislazioni nazionali di attuazione che pongono argini temporali al trascinamento delle ferie maturate e non godute, l’appartenenza all’ordinamento euro-unitario impone al giudice per lo meno un obbligo di interpretazione conforme.
A ben vedere, infatti, la sentenza in commento trascura di collocare la disciplina del diritto alle ferie nel contesto più ampio del dialogo multilivello tra l’ordinamento interno e l’ordinamento euro-unitario. Se si volesse percorrere siffatto approccio, esso imporrebbe innanzitutto l’adozione del canone dell’interpretazione conforme delle norme del diritto nazionale: interpretare l’art. 10 d.lgs. 66/2003 alla luce della direttiva richiede infatti di comprendere la compatibilità tra la disposizione dell’art. 7 della direttiva, che attribuisce al lavoratore il diritto a godere di quattro settimane di ferie, e la disciplina italiana di recepimento, che dispone l’inderogabilità della fruizione di due settimane continuative, rimettendo la collocazione temporale delle ulteriori due (o più) settimane alla determinazione dei contratti collettivi.
In questo quadro, affermare la derogabilità migliorativa della disposizione e negare al contempo una deregolazione in peius appare più coerente con la configurazione del diritto alle ferie di cui all’art. 31 della Carta di Nizza e con la giurisprudenza UE in materia di effettività del menzionato diritto.