TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
Una breve premessa
Con l’atteso provvedimento n. 1663/2020 del 24 gennaio 2020, la Cassazione, nel chiudere la vicenda processuale Foodora, ha al contempo aperto nuove prospettive che, tagliando trasversalmente il diritto del lavoro, si estendono oltre l’orizzonte virtuale dell’economia delle piattaforme.
La dotta e raffinata pronuncia in commento, infatti, rappresenta (recte, potrebbe rappresentare) una significativa, se non epocale, svolta, per (almeno) due ragioni, attinenti, l’una al metodo, l’altra al merito.
Sotto il primo aspetto, riveste un notevole interesse l’ampio ricorso, da parte della Cassazione, ai canoni teleologico e sistematico nell’interpretazione dell’art. 2 d.lgs. 81/2015, in marcata controtendenza con il tradizionale metodo – tanto nel “modello” sussuntivo, quanto nella variante tipologica – di qualificazione delle prestazioni ex art. 2094 c.c. . Se l’art. 2 d.lgs. 81/2015 avesse, come sostenuto dalla Suprema Corte, l’effetto di rendere pleonastico “interrogarsi sul se le [nuove] forme di collaborazione…siano collocabili nel campo della subordinazione ovvero dell’autonomia, perché ciò che conta è che per esse…l’ordinamento ha statuito espressamente l’applicazione delle norme sul lavoro subordinato….”, verrebbe da chiedersi se abbia ancora un senso ragionare attorno alla fattispecie (lavoro subordinato) o se, come si sostiene in altri campi del diritto, la stessa potesse dirsi ormai definitivamente superata, a favore del “primato del caso” .
Sotto il secondo profilo, è agevole preconizzare che la lettura in chiave rimediale dell’art. 2 d.lgs. 81/2015 (ossia di una disposizione che, al di fuori delle sparute – ragionando sui grandi numeri – vicende dei riders, aveva in precedenza attirato l’attenzione più della dottrina che degli operatori ) spiegherà dei notevoli effetti sul contenzioso e che si assisterà all’impiego dell’argomento e/o alla formulazione della domanda (a rigore, in via gradata rispetto alla principale ex art. 2094 c.c. ) ex art. 2 d.lgs. 81/2015 in pressoché tutte le controversie in materia di qualificazione del rapporto di lavoro (comprese quelle estranee all’ambito della gig economy).
Il retroterra processuale della pronuncia di legittimità: l’esclusione (in primo grado e in appello) della natura subordinata della prestazione dei riders (di causa) ex art. 2094 c.c.
Se, come preliminarmente rilevato, il purposive approach della Suprema Corte si fonda su un marcato pragmatismo e, soprattutto, sull’attenzione al caso concreto , pare doveroso prendere le mosse, in sede di commento, da un breve riepilogo dei contorni della singola vicenda processuale sulla quale è giunto da ultimo a pronunciarsi il Giudice di legittimità.
In estrema sintesi, dall’istruttoria condotta nei primi due gradi di giudizio è emerso che i riders ricorrenti, i quali avevano stipulato con la piattaforma un contratto di “collaborazione coordinata e continuativa, godevano formalmente della libertà di – operare per altre piattaforme e – di scegliere l’an ed il quando della propria prestazione, oltre che di accettare o meno le singole proposte di consegna formulate, via app, dalla piattaforma . Una volta accettato l’incarico, il rider si recava, mediante un mezzo proprio (normalmente, una bicicletta), ma con bauletto e “pettorina” recanti l’effige del committente, a ritirare il cibo che veniva poi consegnato al domicilio del cliente della piattaforma, senza che, apparentemente, la piattaforma si ingerisse nella fase di trasporto (ad esempio, imponendo un certo itinerario). Ai riders veniva corrisposto un compenso, a seconda del momento, a tempo o a consegna .
A fronte di un simile quadro probatorio, tanto la pronuncia di primo grado, quanto la decisione d’appello hanno escluso la natura subordinata del rapporto ai sensi dell’art. 2094 c.c., rivendicata dai lavoratori in via principale.
Secondo Trib. Torino 7 maggio 2018 , la libertà dei riders di accettare o meno gli incarichi sarebbe stata incompatibile con la subordinazione, risultando carente il potere della piattaforma di dirigere ed organizzare il lavoro . Il peso decisivo riconosciuto, nella pronuncia torinese e parimenti nella “parallela” decisione del Tribunale di Milano sul caso Glovo , alla libertà del rider di decidere l’an (oltre al quando) della prestazione ha reso secondario, se non addirittura superfluo, l’accertamento relativo alla sussistenza dell’eventuale potere direttivo/organizzativo esercitato dalla piattaforma sul rider durante lo svolgimento dell’attività. Tuttavia, il Giudice piemontese osservava incidentalmente che i lavoratori de quibus non sarebbero stati comunque soggetti ad “ordini specifici” e neppure ad una “assidua attività di vigilanza e controllo”, dal momento che costoro potevano scegliere liberamente le rotte da percorrere in bicicletta dal ristorante al domicilio del cliente della piattaforma, pur essendo i loro spostamenti monitorati da quest’ultima .
Nell’optare per una ricostruzione invero restrittiva della nozione di subordinazione , l’arresto del Tribunale di Torino è sembrato trascurare l’importanza della «nuova» definizione di coordinamento ex art. 409 n. 3) c.p.c. dettata dall’art. 15 l. 81/2015, ove si legge che la collaborazione va considerata «coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa» . Se l’elemento discretivo tra etero-direzione (e/o etero-organizzazione: v. infra) e coordinamento andrebbe individuato nell’esistenza di una situazione caratterizzata dall’assenza del potere organizzativo del committente/datore di lavoro , non sarebbe risultata un’indagine circa la – eventuale – libertà di scelta sull’an e sul quando della prestazione a monte, ma sarebbe stato necessario un attento scrutinio delle modalità operative a valle, volto ad accertare l’effettiva autonomia del prestatore nell’esecuzione dell’incarico (una caratteristica indefettibile di un genuino coordinamento) .
Ciò avrebbe probabilmente richiesto la “decodificazione” del complesso meccanismo di funzionamento della piattaforma, basato su ancora oscuri ratings, sui quali l’istruttoria (i.e. l’esame testimoniale condotto in sede giudiziaria) non era stata in grado di fare chiarezza : se, infatti, fosse emerso che il sistema avesse “penalizzato”, ai fini dell’assegnazione dei nuovi incarichi, il rider che non avesse seguito il percorso indicato dalla piattaforma, sarebbe stato arduo sostenere che il rider avesse goduto di una reale autonomia nell’organizzare la propria prestazione.
La statuizione del Tribunale di Torino circa l’esclusione della natura subordinata della prestazione resa dai riders di causa ha trovato conferma nella pronuncia resa in appello , ove si è pure osservato che la limitata durata dell’impegno dei riders su base settimanale (pari ad una “prestazione media decisamente inferiore alle 20 ore settimanali”) sarebbe risultata “di per sé poco compatibile con la natura subordinata dei rapporti di lavoro in essere”.
Tale presa di posizione è parsa invero sorprendente, alla luce della normale irrilevanza della durata media della prestazione nell’ambito del procedimento di qualificazione, salvo che in casi del tutto peculiari e non passibili di estensione in via analogica . Del resto, si è osservato in dottrina, la natura discontinua propria del contratto di lavoro intermittente non ha mai consentito di porre in dubbio la natura subordinata delle relative prestazioni, quanto meno con riferimento alla fase esecutiva .
Segue. La riconduzione, da parte del (solo) Giudice d’Appello, delle prestazioni dei riders al tertium genus del lavoro etero-organizzato.
Se, dunque, le pronunce di merito sui riders (compresa quella milanese) si sono allineate nell’esclusione della prestazione di questi ultimi dall’alveo del lavoro subordinato, le stesse hanno offerto soluzioni differenti con riguardo alla possibile applicazione dell’art. 2 d.lgs. 81/2015 ai rapporti di causa .
Secondo il Tribunale di Torino, nonostante la chiara intenzione del legislatore di estendere il campo di applicazione del lavoro subordinato, la norma, invocata dai ricorrenti solo in via subordinata, non avrebbe avuto un “contenuto capace di produrre nuovi effetti giuridici sul piano della disciplina applicabile alle diverse tipologie di rapporti di lavoro”.
L’art. 2 d.lgs. 81/2015 sarebbe stato quindi una “norma apparente”, la quale si sarebbe limitata a positivizzare un pregresso indirizzo espansivo della giurisprudenza, che a sua volta non avrebbe mai distinto chiaramente tra etero-direzione ed etero-organizzazione . Anzi, aggiungeva il Giudice piemontese, la disposizione in parola presupponeva che “il lavoratore [fosse] pur sempre sottoposto al potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro e non [era] sufficiente che tale potere si estrinsec[asse] soltanto con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro perché d[oveva] al contrario riguardare anche i tempi e il luogo di lavoro”: sicché, “così come è stata formulata, la norma v[eniva] quindi ad avere addirittura un ambito di applicazione più ristretto di quello dell'art. 2094 c.c.”.
La Corte d’Appello di Torino ha, come risaputo, disatteso l’interpretazione dell’art. 2 d.lgs. 81/2015 quale “norma apparente” offerta dal Giudice di primo grado.
Secondo il Giudice di seconde cure, la disposizione «individua[va] un terzo genere, che si [veniva] a porre tra il rapporto di lavoro subordinato di cui all’art. 2094 c.c. e la collaborazione come prevista dall’art. 409, n. 3 c.p.c., evidentemente per garantire una maggiore tutela alle nuove fattispecie di lavoro che, a seguito della evoluzione e della relativa introduzione sempre più accelerata delle nuove tecnologie, si stanno sviluppando».
Il lavoro etero-organizzato avrebbe riguardato le ipotesi in cui sarebbe «ravvisabile un’effettiva integrazione funzionale del lavoratore nella organizzazione produttiva del committente, in modo tale che la prestazione lavorativa [avrebbe finito] con l’essere strutturalmente legata a questa (l’organizzazione)», esattamente come nel caso dei riders (di causa), i contorni della cui attività venivano definiti dalla piattaforma che fissava i turni (“shifts”) ed il luogo di inizio e termine del servizio di consegna . Il lavoratore etero-organizzato sarebbe rimasto, tecnicamente, “autonomo”, ma per quel che riguarda sicurezza e igiene, retribuzione diretta e differita (quindi inquadramento professionale), limiti di orario, ferie e previdenza, il rapporto sarebbe stato regolato nello stesso modo» del lavoro subordinato . A diverse conclusioni è peraltro giunto il Collegio piemontese con riguardo alla tutela nei confronti del licenziamento, negata ai riders sulla scorta della natura temporanea della relativa prestazione e della conseguente assenza di un atto interruttivo del rapporto (i.e. recesso) da parte della piattaforma .
A prescindere dal fugace e non decisivo – per quanto dubbio: v. infra – richiamo al tertium genus , è stato messo in evidenza da più parti che risulterebbe assai complesso “organizzare” il tempo ed il luogo di un’attività lavorativa senza, al contempo, esercitare il potere direttivo sulla medesima prestazione .
Del resto, sulla scorta di un’accreditata ricostruzione, il lavoratore subordinato è proprio “un debitore la cui prestazione viene organizzata, pianificata dalla controparte nel perseguimento del proprio interesse primario” : sicché, una volta accertata l’integrazione (e non il mero inserimento) funzionale del lavoratore nell’organizzazione produttiva”, la conseguenza avrebbe potuto (anzi, dovuto) essere a rigore il riconoscimento della natura subordinata del rapporto ai sensi dell’art. 2094 c.c. e non l’applicazione – selettiva – delle tutele ex art. 2 d.lgs. 81/2015 .
È sintomatico che il Tribunale di Milano, pur accogliendo la lettura dell’art. 2 d.lgs. 81/2015 come norma di disciplina, ha utilizzato lo stesso argomento (la libertà dei riders di accettare o meno gli incarichi) per escludere l’inquadramento delle prestazioni dei riders di Glovo nell’alveo del lavoro subordinato e l’applicabilità delle tutele del lavoro etero-organizzato ex art. 2 d.lgs. 81/2015, a conferma della complessità nel tracciare – anche all’indomani della modifica dell’art. 2 d.lgs. 81/2015 da parte del d.l. 101/2019, conv. in l. 128/2019: v. infra – una linea di demarcazione tra etero-direzione ed etero-organizzazione.
La strategia processuale delle parti e l’oggetto del giudizio di legittimità.
Prima di ripercorrere l’iter logico-argomentativo della decisione della Suprema Corte, va premesso che avverso la pronuncia della Corte d’Appello di Torino ha proposto ricorso per Cassazione la sola Foodora.
I lavoratori non hanno infatti presentato alcun ricorso incidentale al fine di ottenere la riforma della decisione della Corte d’Appello in punto di esclusione della natura subordinata del rapporto, o anche solo per richiedere la riforma della statuizione del Giudice di secondo grado che aveva loro negato la garanzia nei confronti del licenziamento.
Da un lato, la – naturalmente, libera – scelta concernente la strategia processuale di parte lavoratrice è sembrata offrire un ulteriore sostegno alla tesi di chi già in precedenza aveva osservato che al centro delle rivendicazioni dei riders, non solo italiani , vi fosse un “nucleo duro” di garanzie legate alla fase funzionale del rapporto e non (o non necessariamente) la tutela della stabilità dello stesso nel tempo .
Dall’altro lato, la mancata impugnazione del capo relativo alla domanda ex art. 2094 c.c. ha comportato il passaggio in giudicato della relativa statuizione, sicché l’esito della pronuncia di legittimità avrebbe potuto essere unicamente in favore, alternativamente, della conferma della decisione di appello in punto di applicazione dell’art. 2 d.lgs. 81/2015 o, in accoglimento del ricorso di Foodora, della cassazione della pronuncia di seconde cure, con la conseguente conferma del dato cartolare che da principio aveva inquadrato il rapporto nell’alveo del lavoro autonomo.
La ratio antielusiva e la funzione rimediale dell’art. 2 d.lgs. 81/2015 nella lettura della Cassazione
Nel ricorrere al Giudice di legittimità, la società contestava la riconduzione delle prestazioni di causa all’art. 2 d.lgs. 81/2015, sostenendo che la etero-organizzazione costituirebbe un tratto tipico della subordinazione, da cui sarebbe discesa la natura di norma apparente dell’art. 2 d.lgs. 81/2015, in quanto tale inidonea a produrre effetti giuridici. Anzi, nel richiedere che le modalità di esecuzione fossero organizzate “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”, la disposizione in parola avrebbe richiesto “una ingerenza più pregnante nello svolgimento della collaborazione, eccedente tale etero-determinazione”.
Nel rigettare la doglianza di Foodora, la Corte, che si pronuncia sulla versione dell’art. 2 d.lgs. 81/2015 precedente alle modifiche ad opera del d.l. 3 settembre 2019, n. 101 (conv. con l. 2 novembre 2019, n. 128), si dichiara immediatamente a conoscenza del “vivace dibattito dottrinale” sulla disposizione in parola, il quale “non si è esaurito” e, anzi, “certamente proseguirà alla luce delle novità portate dal recente intervento normativo”.
Già a partire dalla ricostruzione delle posizioni emerse in letteratura, gli Ermellini paiono tuttavia concentrarsi, prima che sull’art. 2 d.lgs. 81/2015 , sulla più specifica questione della qualificazione delle prestazioni rese dai lavoratori delle piattaforme, secondo le seguenti alternative: a) lavoro subordinato, “sia pure in versione ammodernata ed evoluta”; b) “nuova figura intermedia tra subordinazione e autonomia, che sarebbe caratterizzata dall’etero-organizzazione…(teoria del tertium genus o del lavoro etero-organizzato”); c) lavoro autonomo, “nell’ambito di una nozione ampia di subordinazione”; d) “applicazione di una tutela rafforzata nei confronti di alcune tipologie di lavoratori (quali quelli delle piattaforme digitali considerati “deboli”), cui estendere le tutele dei lavoratori subordinati”, secondo un “approccio rimediale, che rinviene in alcuni indicatori normativi tale possibilità”.
Secondo la Corte, il Giudice d’Appello avrebbero seguito la via sub b), oltretutto optando per un’applicazione selettiva delle disposizioni approntate per il lavoro subordinato.
Eppure, come precisa poco dopo la Cassazione, non proponendo alcun ricorso incidentale, i lavoratori hanno rinunciato ad ottenere il “riconoscimento nella fattispecie di veri e propri rapporti di lavoro subordinato”.
A prescindere da tale – tutt’altro che trascurabile – rilievo, la Suprema Corte subito disattende la tesi, definita “radicale”, della norma apparente, osservando che “i concetti giuridici, in specie se direttamente promananti dalle norme, sono convenzionali, per cui se il legislatore ne introduce di nuovi l’interprete non può che aggiornare l’esegesi a partire da essi, sforzandosi di dare alle norme un senso” .
Proprio allo scopo di attribuire un senso e, soprattutto, un effetto all’art. 2 d.lgs. 81/2015, la Corte ricorre ad un canone di interpretazione teleologico/sistematico, guardando alla “finalità complessiva degli interventi del Jobs Act, costituita dall’auspicato incremento dell’occupazione, perseguita attraverso la promozione del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato” .
È in una simile prospettiva che, ad avviso del Giudice di legittimità, il legislatore avrebbe abrogato le disposizioni in materia di lavoro a progetto, al contempo consentendo però la stipulazione di collaborazioni coordinate e continuative ex art. 409 n. 3 c.p.c.: dato che la sottrazione delle tutele (del lavoro a progetto) avrebbe esposto al rischio di abusi, il legislatore si sarebbe orientato, in un’ottica sostanzialmente anti-elusiva, a limitare le conseguenze negative dell’intervento complessivo attraverso “l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato a forme di collaborazione, continuativa e personale, realizzate con l’ingerenza funzionale dell’organizzazione predisposta unilateralmente da chi commissiona la prestazione” .
Si potrebbe sul punto obiettare che, forse, un disegno antielusivo non avrebbe reso necessario l’intervento dell’art. 2 d.lgs. 81/2015, posto che, laddove in sede giudiziaria fosse emerso, (anche) nei riguardi del lavoro su piattaforma, che il contratto di lavoro autonomo aveva “mascherato” un rapporto di natura subordinata, la conseguenza non avrebbe potuto che essere la riqualificazione e, a cascata, l’attribuzione al lavoratore delle tutele caratteristiche del relativo tipo, come del resto inizialmente richiesto dai lavoratori de quibus in via principale.
Nulla di nuovo, sotto questo aspetto, se non, evidentemente, nella complessità, emersa nel corso dei gradi precedenti, dell’accertamento – va ribadito, precluso al Giudice di legittimità, che non avrebbe comunque potuto qualificare il rapporto come subordinato – del meccanismo di funzionamento della piattaforma e, di conseguenza, del reale assetto di obblighi, diritti e poteri delle parti coinvolte .
Per questa ragione, il passaggio chiave dell’iter logico-argomentativo della pronuncia della Cassazione è quello immediatamente successivo, ove si legge che il legislatore avrebbe abbracciato una dimensione, non solo anti-elusiva, ma anche (e soprattutto) rimediale, nello stabilire che “quando l’etero-organizzazione è marcata al punto da rendere il collaboratore comparabile ad un lavoratore dipendente, si impone una protezione equivalente e, quindi, il rimedio dell’applicazione della disciplina del lavoro subordinato”.
La ratio dell’intervento si legherebbe, insomma, ad una sfiducia nei confronti non già delle categorie tradizionali (subordinazione e autonomia), bensì (del metodo deduttivo classico e) degli “esiti talvolta incerti e variabili delle controversie qualificatorie ex art. 2094 cod.civ.”, il che avrebbe indotto il legislatore (e, di conseguenza, il Giudice) a valorizzare “taluni indici fattuali ritenuti significativi…e sufficienti a giustificare l’applicazione della disciplina dettata per il rapporto di lavoro subordinato”.
Così, attraverso una “norma-scivolo” (per dirla con Riccardo Del Punta ), il legislatore avrebbe esonerato il giudice da ogni (ulteriore) indagine, tutelando i “prestatori evidentemente ritenuti in condizione di debolezza economica, operanti in una zona grigia tra autonomia e subordinazione”, rispetto alla quale non avrebbe neppure “decisivo senso interrogarsi sul se tali forme di collaborazione, così connotate e di volta in volta offerte dalla realtà economica in rapida e costante evoluzione, siano collocabili nel campo della subordinazione ovvero dell’autonomia, perché ciò che conta è che per esse…l’ordinamento ha statuito espressamente l’applicazione delle norme sul lavoro subordinato” .
Si potrebbe, tuttavia, obiettare che, in un’ottica processuale, la “zona grigia” non può che assumere i tratti di una categoria descrittiva, al più utile a dar conto della notoria ed anzi “storica” complessità dell’accertamento della subordinazione nell’esperienza giudiziaria : che all’interprete sia consentito di non “interrogarsi” più sulla riconduzione delle prestazioni collocabili in tale “campo” nell’alveo della subordinazione o dell’autonomia non sembra un risultato mirabile, come sarebbe stato invece l’adeguamento, in ossequio ad una – diversa – logica “purposive” , della fattispecie tradizionale ai nuovi dati di realtà sociale .
Segue. Gli incerti confini tra l’etero-organizzazione ed il coordinamento, sullo sfondo della subordinazione (come fattispecie…e come disciplina)
Tracciati i sottili confini (o le soglie) “superiori” tra etero-direzione ed etero-organizzazione, la Cassazione si concentra poi su quelli “inferiori” tra la seconda ed il coordinamento.
Mentre quest’ultimo implicherebbe un comune accordo tra le parti, nell’etero-organizzazione vi sarebbe la modulazione unilaterale di una collaborazione destinata ad “inserirsi ed integrarsi con l’organizzazione di impresa”.
Di conseguenza, il regime di autonomia nella “fattispecie” dell’art. 2 d.lgs. 81/2015 sarebbe “integro nella fase genetica dell’accordo (per la rilevata facoltà del lavoratore ad obbligarsi o meno alla prestazione), ma non nella fase funzionale, di esecuzione dell’accordo, relativamente alle modalità di prestazione, determinate in modo sostanziale da una piattaforma multimediale e da un applicativo per smartphone”.
Va notato sul punto come la Corte, non diversamente dalla pronuncia di appello, nell’aprire ad una visione ampia dell’etero-organizzazione (o, se vogliamo, della subordinazione come disciplina), abbia inevitabilmente offerto una lettura piuttosto restrittiva della etero-direzione (i.e. subordinazione come fattispecie), cui si sarebbe viceversa potuto (ma non, come più volte ribadito, nel giudizio de quo) ricondurre un rapporto di lavoro le cui modalità esecutive fossero risultate “determinate in modo sostanziale” dall’altro contraente (piattaforma o altro).
Non a caso, lo stesso Giudice di legittimità afferma poco dopo che non potrebbe neppure negarsi che, a fronte di una specifica domanda ex art. 2094 c.c., si sarebbe eventualmente potuto accertare in concreto la sussistenza di una vera a propria subordinazione (“nella specie esclusa da entrambi i gradi di merito con statuizione non impugnata dai lavoratori”), il che avrebbero negato ad origine alcun problema di disciplina (in)compatibile.
Ed è così che, pur escludendo che si possa inquadrare l’etero-organizzazione in un tertium genus e così selezionare, in assenza di un’espressa indicazione del legislatore, le tutele applicabili ex post e sulla base della “variabile interpretazione dei giudici”, la Corte giunge al contempo ad ammettere – sin troppo sbrigativamente – che vi possono essere “situazioni in cui l’applicazione integrale della disciplina della subordinazione sia ontologicamente incompatibile con la fattispecie da regolare” .
Segue. La delicatissima questione dei diritti “ontologicamente” incompatibili con un rapporto di lavoro autonomo.
Dietro il lapidario richiamo della Corte all’ontologica incompatibilità integrale della disciplina della subordinazione con la “fattispecie” della etero-organizzazione, oltretutto di scarsa coerenza con l’affermata finalità antielusiva alla base della disposizione (la quale dovrebbe imporre, a rigore, l’applicazione integrale e non parziale delle tutele) , si sarebbe tentati di scorgere un rinvio alle regole che pongono delle limitazioni all’esercizio dei poteri i quali, nel presupporre un rapporto di lavoro subordinato, risultano incompatibili con l’autonomia .
Si pensi, a mo’ di esempio, all’esercizio del potere disciplinare, prerogativa del datore di lavoro nell’ambito di un rapporto subordinato: ove il committente di un rapporto di lavoro caratterizzato da un grado significativo di inserimento nell’organizzazione rilevasse un inadempimento del collaboratore, si troverebbe di fronte all’amletico dubbio tra l’esperimento del procedimento disciplinare, che potrebbe offrire un possibile “indizio” utile ai fini della qualificazione del rapporto (come subordinato), e l’attesa dell’eventuale azione del lavoratore ex art. 2 d.lgs. 81/2015, che potrebbe travolgere una sanzione – in senso lato – irrogata in spregio del diritto al contraddittorio garantito ai lavoratori (subordinati) dall’art. 7 s.l.
A considerazioni analoghe si potrebbe peraltro pervenire con riguardo al potere di recesso, il cui valido esercizio richiede, nel lavoro subordinato, la presenza dei presupposti esterni previsti dalla legge, la cui carenza impone di individuare la tutela sulla base di una serie di fattori legati, come noto, tanto alle dimensioni dell’impresa, quanto allo specifico vizio dell’atto. Come e se tale – e non, genericamente, l’apposizione di alcuni limiti all’esercizio del diritto di recesso, come ad esempio l’obbligo di preavviso – disciplina protettiva si possa in toto estendere al lavoro – autonomo – etero-organizzato o se sia “ontologicamente” incompatibile con lo stesso non pare chiaro sulla scorta della lettura dell’art. 2 d.lgs. 81/2015 in chiave rimediale proposta dal Giudice di legittimità .
È proprio guardando agli effetti (anche della pronuncia di legittimità) che si è portati ad escludere che sia stata travolta la tradizionale dicotomia – “concettualmente radicale”, se non addirittura “in rerum natura” – tra subordinazione ed autonomia , confermata dal riconoscimento ex lege, in (temporale) coincidenza con le “fasi finali” del caso Foodora, di alcuni specifici diritti a favore dei riders (autonomi e non etero-organizzati) attraverso il d.l. 101/2019 (conv. in l. 128/2019) .
Del resto, il meccanismo “rimediale” di cui all’art. 2 d.lgs. 81/2015 sarebbe in ogni caso destinato ad operare ex post, ossia per effetto di una pronuncia giudiziaria, e non ex ante, per una volontaria scelta delle parti. Queste, infatti, si troveranno “come sempre” ad optare inizialmente per l’inquadramento nell’alveo del lavoro subordinato o, alternativamente, autonomo (eventualmente nella forma coordinata e continuativa), salvi i rischi, in particolare per il committente, di un’estensione delle tutele proprie del lavoro subordinato (e/o, naturalmente, della riqualificazione tout court del rapporto) per effetto di una successiva iniziativa del lavoratore in sede giudiziaria.
Proprio per questo, all’indomani dell’arresto della Cassazione pare potersi preconizzare che l’art. 2 d.lgs. 81/2015 verrà d’ora in poi – sempre salvi eventuali ripensamenti della giurisprudenza…o del legislatore: v. infra – invocato in larga parte delle vertenze in materia di qualificazione dei rapporti di lavoro, ma è altrettanto probabile che ciò avverrà in via gradata, a meno che i lavoratori non siano unicamente interessati al corredo di diritti – ma quali, appunto? – compatibili con una prestazione di lavoro formalmente autonomo.
Conclusioni
Come si è cercato di mettere in evidenza, la grande dicotomia tra lavoro subordinato ed autonomo non sembra essere stata scalfita dall’interpretazione dell’art. 2 d.lgs. 81/2015 in chiave rimediale proposta dalla Suprema Corte.
Del resto, la sfiducia del legislatore, alla base, nell’ottica della Corte, dell’introduzione dell’art. 2 d.lgs. 81/2015, non pare essersi indirizzata sulla fattispecie, bensì sugli esiti incerti dell’operazione qualificatoria. Ciò è piuttosto sorprendente, visto il soggetto da cui la critica proviene, ma, alla luce dell’approccio rimediale – se non casistico – abbracciato dai Giudici di Piazza Cavour, può trovare spiegazione nella complessità di giungere, nell’ambito della singola vicenda, ad un quadro chiaro circa l’operatività del sistema logaritmico di assegnazione degli incarichi, probabilmente decisivo ai fini dell’eventuale qualificazione delle prestazioni dei riders entro l’alveo della subordinazione (comunque preclusa alla Cassazione) .
Eppure, il risultato del purposive approach della Cassazione, dietro un’apparente semplificazione, si rivela foriero di notevoli criticità e dubbi, che si legano in primis alla “ontologica” incompatibilità di alcune tutele del lavoro subordinato con il lavoro autonomo. Così interpretata, la disposizione dell’art. 2 d.lgs. 81/2015 sembra non tanto esaurirsi nel caso deciso, quanto non offrire una regola (i.e. una soluzione) chiara per il caso stesso (a prescindere dalla circostanza che ormai Foodora non operi materialmente più in Italia). In difetto della capacità ordinante della fattispecie, l’approccio rimediale pare così assumere i tratti di uno “scivolo” verso l’incertezza – concernente, paradossalmente, proprio le tutele concretamente applicabili ai riders de quibus – prima che verso la subordinazione (o la relativa disciplina) .
A fronte di un quadro tanto frastagliato, si potrebbe da ultimo pensare, per puntellare la pars destruens con una pars construens, a due correttivi di diverso segno.
Se si intendesse perseguire nuovamente un approccio selettivo, sarebbe opportuno intervenire sulla costruzione della disposizione mediante la quale si è inteso estendere le tutele dei lavoratori subordinati oltre l’alveo dell’art. 2094 c.c.: in una simile prospettiva, sarebbe auspicabile, sulla scia dell’esempio dei workers britannici, prendere un’espressa posizione circa i diritti – ragionando in primis su quelli, aventi un addentellato costituzionale, come la retribuzione (art. 36), l’orario, i riposi e le ferie (art. 37), suscettibili di costituire l’oggetto di una posizione giuridica di debito/credito – e non solo sulle caratteristiche dei lavoratori cui riconoscere le guarentigie. Costoro non potranno coincidere con i prestatori integrati funzionalmente nell’organizzazione del committente né con coloro le cui modalità della prestazione vengano “determinate” dalla piattaforma (cfr., invece, art. 47-bis, comma 2, d.lgs. 81/2015), poiché, altrimenti, lo “scivolo” non potrà che condurre verso la subordinazione come “tipo” e come disciplina protettiva inderogabile.
In alternativa, se si prediligesse la via della “neo-polarizzazione” , ci si potrebbe orientare verso la cancellazione dell'art. 2 (e del capo V-bis del) d.lgs. 81/2015, optando per l’introduzione di uno statuto del lavoro autonomo più coraggioso di quello varato nel 2017 che, in nome dell’universalità del bisogno di tutela della persona che lavora, varchi i confini (urbani e non) della gig economy, senza per ciò travolgere, ma, piuttosto, aggiornando o, meglio, adeguando il tradizionale schema binario (ed i relativi criteri di accertamento in sede processuale) alla nuova realtà economico/sociale. Del resto, è proprio per questo che il diritto del lavoro, al pari della sua facti species di riferimento, è – da sempre e, forse, ontologicamente – in crisi, da intendersi nell’accezione più vicina alla radice etimologica del termine.