Testo integrale con note e bibliografia
1. Premessa
La lotta alla diseguaglianza di genere in ambito lavorativo richiede un massiccio intervento sulle molteplici dimensioni della discriminazione, non solo repressivo, ma che incentivi le imprese a realizzare e garantire la parità di genere sia nel momento genetico del rapporto di lavoro sia in quello funzionale.
In questa direzione si colloca la recente modifica del d.lgs. n. 198/2006 (cd. Codice delle Pari Opportunità, d’ora in poi CPO), ad opera della l. n. 162/2021 che è intervenuta da un lato per raggiungere l’obiettivo fissato dall’Agenda ONU 2030 di adottare e consolidare politiche e provvedimenti legislativi che promuovano la parità di genere ; dall’altro lato per dare attuazione (in parte) alle riforme riconducibili alla prima componente della quinta Missione (“M5C1” – «Politiche per il lavoro») del PNRR tra cui quella di realizzare, in coerenza con le politiche europee (Gender Equality Strategy 2020-2025 ), una Strategia nazionale per garantire la parità di genere, usufruendo delle risorse finanziarie stanziate dal NGEU .
Nel dibattito giuslavoristico successivo alla sua emanazione, si è discusso ampiamente delle novità introdotte dalla l. n. 162/2021 con particolare riferimento alla neoistituita certificazione della parità di genere (art.46-bis CPO) e all’ampliamento dell’obbligo di redazione del Rapporto biennale sulla situazione del personale maschile e femminile (art.46 CPO) . Meno dibattuta, di contro, è stata la modifica della nozione di discriminazione diretta e indiretta contenuta nell’art. 25 del CPO, foriera di diversi dubbi interpretativi a causa di una tecnica di intervento legislativo “spot, mirato, quasi chirurgico” , che ha attratto nello schema di tutela, sostanziale e processuale, pensato originariamente per il fattore di rischio “genere”, altri fattori di rischio già destinatari di specifiche discipline antidiscriminatorie.
Pertanto, se l’allargamento della nozione di discriminazione è da accogliere indubbiamente con favore, non altrettanto può dirsi per le ricadute pratiche che la novella legislativa è in grado di determinare.
2. L’operatività della tutela antidiscriminatoria anche nella fase di selezione del personale
L’art. 25 CPO delinea, nei primi due commi, la nozione di discriminazione diretta e indiretta, i cui requisiti costitutivi rimangono immutati anche dopo la novella del 2021.
La novità introdotta dalla l. n. 162/2021 riguarda l’estensione, in entrambe le ipotesi, della tutela antidiscriminatoria alla fase preassuntiva e di selezione del personale, in quanto non sono affatto rari i casi di condotte o atti che realizzano in questa fase un effetto pregiudizievole e di svantaggio (diretto o indiretto) nei confronti dei lavoratori portatori del cd. fattore di rischio.
Per effetto della novella nella definizione di discriminazione [diretta (comma 1) e indiretta (comma 2)] viene ora inserito il riferimento anche alle “candidate” e ai “candidati” in fase di selezione del personale.
Trattasi, a ben vedere, di una modifica tesa ad escludere interpretazioni difformi della nozione ampia e generale di discriminazione già desumibile dal successivo art. 27, co. 1, CPO secondo cui il divieto di discriminazione riguarda anche i criteri di selezione sia nelle fasi precedenti la costituzione del rapporto di lavoro, sia quelli di promozione, in qualunque settore e a qualunque livello della gerarchia professionale.
Per altro verso la novella recepisce gli orientamenti giurisprudenziali nel tempo espressi dalla CGUE che ha più volte chiarito come l’ambito di applicazione dei divieti di discriminazione investe anche la fase anteriore all’assunzione, tenuto conto della rilevanza che l’accesso al lavoro riveste nella vita personale, analogamente a quella della perdita del lavoro conseguente al licenziamento.
Significativa sul punto è la sentenza CGCE dell’8 novembre 1990, causa C-177/88, Dekker, per la quale: «un rifiuto d’assunzione per motivo di gravidanza può opporsi solo alle donne e rappresenta quindi una discriminazione diretta a motivo del sesso. Orbene, un rifiuto di assunzione dovuto alle conseguenze finanziarie di un’assenza per causa di gravidanza deve esser considerato fondato essenzialmente sull’elemento della gravidanza. Siffatta discriminazione non può giustificarsi con il danno finanziario subito dal datore di lavoro, in caso di assunzione di una donna incinta, durante tutto il periodo d’assenza per maternità» .
Principio ribadito di recente anche dalla Corte di Cassazione, secondo cui «poiché soltanto le donne possono rimanere incinte, il rifiuto di assumere o il licenziamento di una donna incinta per il suo stato di gravidanza o maternità costituiscono una discriminazione diretta fondata sul sesso che non può essere giustificata da alcun interesse, compreso quello economico del datore di lavoro» .
Dagli orientamenti citati, si evince che già prima dell’intervento della l. n. 162/2021, il campo di operatività della tutela antidiscriminatoria comprendeva anche la fase di accesso al lavoro, come nel caso della mancata assunzione o ammissione alle procedure selettive per l’assunzione di determinate persone, non diversamente dalla successiva fase di svolgimento del rapporto di lavoro, il che conferma la natura rafforzativa e non innovativa delle modifiche introdotte nel 2021.
3. L’allargamento della nozione di discriminazione indiretta alle modifiche organizzative o incidenti sull’orario di lavoro
Un’ulteriore novità è costituita dall’inclusione nell’art. 25, co.2, CPO «delle modifiche di natura organizzativa, o incidenti sull’orario di lavoro» tra i possibili comportamenti che possono dare luogo a discriminazione indiretta. L’innovazione legislativa è ricca di implicazioni, consentendo il sindacato giudiziale su decisioni inerenti sia ai trasferimenti individuali sia alle modifiche degli orari di lavoro (come l’introduzione del lavoro a turni, anche notturni, la richiesta di lavoro straordinario etc.).
A ben vedere anche in questo caso più che di un’estensione in senso stretto, si può parlare di una mera esplicitazione, in quanto l’ampia accezione della discriminazione (indiretta) vietata, in particolare se riferita agli orari di lavoro, aveva già trovato apprezzabili riscontri in giurisprudenza.
Anzi, circolano recenti pronunciamenti di merito che hanno sottoposto a scrutinio giudiziale anche le scelte organizzative datoriali in senso più ampio.
Nella controversia instaurata da una lavoratrice, dipendente di una società della grande distribuzione organizzata, che al rientro in servizio dalla maternità e dopo aver fruito del congedo straordinario per assistere la figlia minore disabile, risultava destinataria di turni lavorativi spezzati e serali, con assegnazione continuativa delle cd. “chiusure”, il GUL adito ha ritenuto integrante una discriminazione indiretta la “non corretta” gestione dei turni di lavoro, tenuto conto dei fattori protetti dall’ordinamento di cui era portatrice la lavoratrice . Dopo aver richiamato i principi in materia di discriminazione di genere e di disabilità, il Tribunale ha evidenziato come « … Trattare in maniera identica agli altri lavoratori in punto di orari e turni di lavoro una persona in difficoltà e doppiamente protetta dall’ordinamento, sia in ragione della maternità sia in ragione dell’inabilità del figlio, significa operare una discriminazione indiretta perché una decisione datoriale, apparentemente neutra e che si dice gravare su tutti, pone la lavoratrice in una posizione di particolare svantaggio rispetto agli altri lavoratori a tempo pieno…Si ritiene quindi che il diniego dell’azienda di trovare un accomodamento sull’orario di lavoro sia l’espressione di una discriminazione indiretta perché un orario, pure accettato dalla lavoratrice prima dell’evento e quindi un atto apparentemente neutro, mette la madre di figlio con handicap in una particolare situazione di svantaggio rispetto ad altri lavoratori, che pur seguendo orari simili, non hanno un figlio minore con handicap».
Altra pronuncia di merito ha accertato una discriminazione indiretta collettiva a danno di 83 dipendenti dell’ITL di Firenze, nei confronti dei quali erano stati emanati dall’Ispettorato due ordini di servizio sulla disciplina dell’orario di lavoro in violazione della normativa in tema di pari opportunità . In particolare, questi ultimi contemplavano: l’obbligo di giustificazione scritta del ritardo compreso nella fascia oraria dalle 9.16 alle 9.30 entro le 24.00 ore a pena di contestazione disciplinare, la qualificazione come permessi brevi non retribuiti delle entrate successive alle ore 9.30 e la fruizione dei riposi compensativi in Banca ore subordinata alle esigenze di spesa delle somme accreditate per il lavoro straordinario.
La sentenza ha ritenuto che gli ordini di servizio integrassero una discriminazione indiretta a danno dei dipendenti con figli e quindi, in larga misura, delle lavoratrici madri in quanto andavano ad impattare sensibilmente sul regime di flessibilità oraria regolato dalla contrattazione collettiva di riferimento, senza peraltro che la loro applicazione fosse sostenuta dai requisiti di appropriatezza e necessità richiesti dalla normativa nazionale ai fini dell’ammissione della giustificazione per la discriminazione indiretta.
Da ultimo si segnala una recente sentenza che ha riguardato il caso di una discriminazione indiretta e collettiva di genere relativa all’orario lavorativo imposto alle lavoratrici madri con figli minori, impugnata dalla Consigliera per la Parità della Regione Emilia-Romagna ex art. 37 CPO. In particolare, si lamentava che l’avvicendamento nella gestione di un appalto relativo ai servizi di magazzino avesse comportato un mutamento dell’orario lavorativo tale da pregiudicare, in concreto, tutte le donne lavoratrici con figli minori, costringendole de facto a rassegnare le dimissioni o a rifiutare l’assunzione (il cambiamento orario, infatti, si sostanziava nel passaggio da un turno centrale articolato dalle 8.30 alle 17.30 a due turni organizzati nella fascia 5.30-13.30 e 14.30-22.30) .
Richiamando l’art.25 CPO (nel testo in vigore prima delle modifiche apportate dalla l. n.162/2021), la sentenza ha definito discriminazione indiretta di carattere collettivo la disposizione aziendale che disciplinava i turni di lavoro, perché non poneva divieti a determinati dipendenti, né escludeva alcuni di essi, ma applicava appunto indistintamente a tutti l’identico orario su due turni spezzati, oltre che a turnazione, utilizzando quindi una disposizione apparentemente neutra, ma che in concreto metteva alcuni lavoratori o lavoratrici in una “posizione di particolare svantaggio” rendendo gravosa, se non addirittura per alcuni di fatto impraticabile, la cura dei figli minori; ciò proprio in orari in cui la presenza del genitore era particolarmente necessaria, per impossibilità o estrema difficoltà di demandarne ad altri la cura.
È dunque evidente che la novella legislativa, nel tipizzare ulteriori profili di comportamento discriminatorio, se da un lato recepisce gli orientamenti giurisprudenziali in materia, dall’altro lato attribuisce più ampia rilevanza alle questioni attinenti alla conciliazione tra vita professionale ed esigenze di cura, in modo coerente non solo con l’art.37 Cost. [che impone, oltre all’eguaglianza retributiva tra uomini e donne per lo stesso lavoro o lavoro di eguale valore, condizioni di lavoro in grado di assicurare lo svolgimento della essenziale “funzione familiare”], ma anche con l’art.33 della Carta europea dei diritti fondamentali e con la recente dir. (UE) 2019/1158 sul work-life balance (infra).
In fase applicativa è necessario, perciò, porre particolare attenzione alla questione del bilanciamento dei tempi vita-lavoro con le esigenze organizzative del datore di lavoro, da valutarsi alla luce della attuale definizione della disposizione in materia di discriminazione indiretta che impone una valutazione rigorosa da parte della giurisprudenza.
4. Le modifiche all’art. 25, co. 2-bis, CPO: l’estensione dei fattori di rischio
Alle modifiche testé analizzate si ricollega l’integrale novella del comma 2-bis dell’art. 25 CPO che ribadisce la rilevanza discriminatoria della «modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro» che «in ragione del sesso, dell’età anagrafica, delle esigenze di cura, personale e familiare» (oltre a quelle già previste di cura genitoriale, gravidanza, maternità e paternità o all’esercizio dei relativi diritti) ponga il lavoratore o la lavoratrici in determinate condizioni di svantaggio.
Di conseguenza, si estendono gli spazi di intervento del diritto antidiscriminatorio mediante il quale si potrà sindacare, caso per caso, se la variazione organizzativa o temporale richiesta dal datore di lavoro ha prodotto effetti svantaggiosi per il lavoratore con particolare riferimento alle sue esigenze di cura o di genitorialità.
In base al nuovo comma 2-bis i presupposti che rendono discriminatori i trattamenti o la modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro sono individuati in modo analitico, ma non tassativo, dal legislatore e devono consistere in almeno una delle seguenti condizioni: porre i lavoratori/trici in una condizione di svantaggio rispetto alla generalità dei lavoratori; limitare le opportunità di partecipazione alla vita e alle scelte aziendali; limitare l’accesso ai meccanismi di avanzamento e progressione di carriera.
La prima condizione, pur essendo riconducibile alla nozione vigente di discriminazione indiretta quale trattamento o comportamento apparentemente neutro, ma fonte di “particolare svantaggio” nei confronti dei soggetti tutelati dai divieti di discriminazione, ne fornisce una nozione più estesa, essendo omesso l’aggettivo “particolare”. La formula indeterminata del termine “svantaggio” è suscettibile, pertanto, di ricomprendere molte situazioni, oltre quelle elencate nell’articolo novellato che appaiono essere solo esemplificazioni di fattispecie che non esauriscono lo spettro delle possibili discriminazioni. Il legislatore, inoltre, stabilisce a priori il termine di paragone da utilizzare nel giudizio di comparazione, richiedendo che lo svantaggio sia rilevato rispetto «alla generalità degli altri lavoratori», criterio che non sempre serve a provare la discriminazione.
Quanto, invece, al riferimento alla limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali o alla limitazione dell’accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera, non si comprende, nel silenzio della legge, se queste fattispecie richiedono o meno un giudizio di comparazione, e in caso positivo se quest’ultimo debba essere condotto in relazione alla generalità dei lavoratori come nel caso indicato alla lett.a) del comma 2-bis. Non è affatto certo che tale modifica produca un effetto espansivo della fattispecie discriminatoria; sarà necessario verificare, pertanto, la concreta applicazione giurisprudenziale della novella, con l’auspicio che non venga limitata l’operatività della disciplina antidiscriminatoria .
La vera novità introdotta dalla l. n. 162/2021 riguarda, piuttosto, l’attrazione nell’orbita della tutela antidiscriminatoria di genere e di quella connessa alla genitorialità (già ricompresa nella prima fattispecie dall’art. 3 d.lgs. n. 151/2001), dei fattori di rischio collegati al «sesso», all’«età anagrafica» e alle esigenze «di cura personale e familiare», con un approccio legislativo che si potrebbe in parte ricondurre al modello dalla dottrina definito “a lista aperta”, tipica del principio generale di uguaglianza .
Nel tentativo di allargare la lista dei fattori protetti il legislatore ha di fatto “pasticciato” il testo normativo . In primo luogo, non è chiaro perché si menzionino fattori – il sesso e l’età (peraltro solo anagrafica) – già protetti da altre disposizioni. Per il «sesso» si pone un problema di coordinamento con le altre fattispecie di discriminazione di genere contemplate dall’art. 25; per l’«età anagrafica» si pone la necessità di raccordo con la distinta e specifica disciplina di cui al d.lgs. n. 216/2003. In secondo luogo, è necessario verificare se l’aver vietato le discriminazioni in ragione delle «esigenze di cura personale e familiare» esaurisce l’insieme dei fattori protetti dalla dir. (UE) 2019/1158 dove si prevede una tutela contro le discriminazioni connesse alla conciliazione vita-lavoro, ma solo se causate dalla domanda o fruizione di specifici diritti.
Con specifico riferimento alle «esigenze di cura personale e familiare» diventa, perciò, dirimente comprendere il perimetro di applicazione della nuova disposizione in quanto l’aver ricondotto tale fattore di rischio nell’ambito delle discriminazioni di genere, consente di applicare le disposizioni processuali, sanzionatorie e rimediali dettate per queste ultime.
Per prima cosa è opportuno tenere distinte le due fattispecie enunciate dalla novella e cioè le esigenze di cura personale da quelle familiari.
Partendo da quest’ultime il legislatore non ne specifica il contenuto, potendosi ricomprendere nelle «esigenze di cura familiare» tutti i congedi garantiti dalla richiamata direttiva, ma anche, più in generale, la richiesta di orari di lavoro flessibili per motivi di assistenza non collegata all’esercizio di uno specifico diritto.
Quindi all’interno di tale fattore protetto potrebbe rientrare sia la tutela della genitorialità, attratta ancor prima della novella del 2021 nell’alveo della discriminazione di genere, sia tutti i casi in cui un trattamento o una modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro (direttamente o indirettamente) si riverberano sulle quotidiane esigenze di conciliazione vita-famiglia-lavoro del lavoratore/trice.
Salvo a non voler ritenere che in base alla nuova formulazione dell’art. 25, co. 2-bis, CPO la tutela della genitorialità abbia acquistato una propria autonomia rispetto a quella di genere , le «esigenze di cura familiare» devono essere, perciò, differenti rispetto a quelle collegate all’esercizio dei diritti connessi alla maternità e paternità e a quelle dei caregivers, come definiti dall’art. 1, co. 255, l. n. 205/2017 , oggi destinatari di una specifica tutela sostanziale e processuale introdotta e/o modificata dal d.lgs. n. 105/2022 proprio in attuazione della dir. (UE) 2019/1158 .
Il d.lgs. n. 105/2022, infatti, reca disposizioni finalizzate a migliorare la conciliazione tra attività lavorativa e vita privata per i genitori e i prestatori di assistenza, al fine di conseguire la condivisione delle responsabilità di cura tra uomini e donne e la parità di genere in ambito lavorativo e familiare; più nello specifico, per i fini che qui interessano, il citato provvedimento ha inserito nel corpus della l. n. 104/1992 il nuovo art. 2–bis che estende la tutela processuale di cui all’art. 28 d.lgs. n. 150/2011 alle discriminazioni a danno dei lavoratori che chiedono o usufruiscono: dei benefici (tipizzati) previsti dagli artt. 33 l. n. 104/1992 (permessi), 33 e 42 d.lgs. n. 151/2001 (rispettivamente prolungamento del congedo e riposi e congedo straordinario), 18, co. 3-bis, l. n. 81/2017 (priorità di richiesta di lavoro agile), 8, d.lgs. n. 81/2015 (priorità alla trasformazione in part time) o dei benefici (non tipizzati) concessi ai lavoratori in relazione alla condizione di disabilità propria o di coloro ai quali vengano prestati assistenza e cura.
È evidente che se si riconducessero all’interno del perimetro applicativo del novellato art. 25, co. 2-bis, CPO anche le situazioni coperte dalla nuova disposizione di cui all’art. 2-bis l. n. 104/1992 si verrebbe a creare una sovrapposizione di discipline processuali che renderebbe incerta e finanche ineffettiva la tutela giurisdizionale in caso di discriminazioni collegate alle esigenze di “cura familiare”.
A questo punto le letture nel nuovo disposto possono essere due: o ritenere che il d.lgs. n. 105/2022, in quanto ius superveniens, ha attratto nel suo campo di applicazione tutte le ipotesi di “cura familiare” tra cui anche quelle espressamente contemplate dal novellato art. 25, co. 2-bis, CPO che, quindi, a poco più di un anno dalla sua emanazione, sarebbe già superato; oppure occorre prendere atto che quest’ultima disposizione, allorquando richiama le esigenze di “cura familiare”, attraendole nella tutela antidiscriminatoria di genere (e quindi in quella giurisdizionale di cui agli artt. 36-29 CPO), si riferisce ad altre ipotesi non contemplate da specifiche discipline.
Secondo quest’ultima lettura, senz’altro preferibile, al CPO va ricondotta (rectius continua a essere ricondotta) la tutela della genitorialità (maternità e paternità), anche dopo le modifiche introdotte dal d.lgs. n. 105/2022: in simili ipotesi la tutela contro le discriminazioni connesse alla conciliazione vita-lavoro è ancorata alla domanda/fruizione di specifici diritti (come il congedo di maternità, paternità e parentale, etc.). Di contro si escludono dal campo di applicazione del CPO i benefici (tipizzati e non) concessi ai lavoratori caregivers a cui si applica, per i casi di discriminazione collegati all’esercizio dei relativi diritti il nuovo art. 2-bis l. n. 104/1992, introdotto dal d.lgs. n. 105/2022, che richiama il procedimento di cui all’art. 28 d.lgs. n. 150/2011.
Passando ora alle “esigenze personali”, anch’esse richiamate nel nuovo art. 25, co. 2-bis, CPO, è necessario comprendere se esse includono la tutela della disabilità, secondo il modello bio-psicosociale che, in linea con le istanze sovranazionali , contempla al suo interno anche la malattia di lunga durata quando comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di eguaglianza con gli altri lavoratori .
La tutela antidiscriminatoria dei disabili ruota intorno ai c.d. «accomodamenti ragionevoli» che il datore di lavoro, pubblico e privato, deve adottare nei luoghi di lavoro al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità . La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 2006 (UNCRPD) ha espressamente ricompreso nella nozione di discriminazione fondata sulla disabilità il «rifiuto di accomodamenti ragionevoli» da parte del datore di lavoro . L’adozione di adattamenti ragionevoli, infatti, essendo funzionale alla rimozione delle barriere che sono causa dell’interazione (negativa) fra persona e ambiente, è immediatamente leggibile nella prospettiva antidiscriminatoria, integrando il sistema di tutela del disabile con forme aggiuntive rispetto a quelle tipizzate dalle norme sostanziali .
Nell’ambito degli «accomodamenti» si inseriscono varie misure, anche di tipo organizzativo che consentono di inserire e integrare nel contesto lavorativo il soggetto disabile o vulnerabile tra cui: il lavoro agile; il cd. riadattamento dei ritmi di lavoro, con adeguamento degli stessi alle esigenze personali del lavoratore; la riduzione dell’orario di lavoro, anche con la trasformazione del rapporto da full time a part time; la sistemazione dei locali e delle attrezzature in modo da rimuovere eventuali barriere presenti sul posto di lavoro; l’impiego di mezzi tecnologici che permettono di assistere il lavoratore nella esecuzione della mansione o di adattare gli strumenti di lavoro e i locali alla sua disabilità.
Quindi, a ben vedere, una «modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro» che produce un effetto pregiudizievole per il lavoratore «in ragione delle esigenze di cura personale», ben potrebbe integrare una discriminazione collegata alla mancata adozione da parte del datore di lavoro di accomodamenti ragionevoli.
Ne consegue che se alla “cura personale” di cui all’art. 25, co. 2-bis, CPO viene ricondotta la disabilità bio-psicosociale, anche in questo caso si verrebbe a creare una sovrapposizione di discipline considerato che i lavoratori disabili, sono già destinatari di una tutela antidiscriminatoria ad hoc (d.lgs. n. 216/2003) in parte riconducibile al nuovo art. 2-bis l. n. 104/1992, sopra menzionato.
Ed allora, nel rispondere al quesito sopra formulato, si può concludere che la novella dell’art. 25, co. 2-bis, CPO ha un campo di applicazione residuale che non copre l’intero perimetro della dir. (UE) 2019/1158, recepita nel d.lgs. n. 105/2022, e può riguardare tutti i casi in cui il lavoratore portatore di uno dei fattori di rischio ivi enunciati, non può vantare specifici diritti contemplati da specifiche disposizioni.
In questo modo, la tutela antidiscriminatoria risulta notevolmente ampliata perché include tutte le ipotesi, non tipizzate dal legislatore, in cui un trattamento o una decisione organizzativa del datore di lavoro producono, direttamente o indirettamente, un effetto pregiudizievole sulla vita lavorativa e familiare del lavoratore, fino a ricomprendere nelle discriminazioni per “ragioni di cura” le ipotesi di discriminazione per associazione . Una questione dibattuta, infatti, è se il diritto all’accomodamento ragionevole e alla conseguente tutela antidiscriminatoria possa essere vantata solo dal lavoratore disabile, oppure anche dal familiare che lo accudisce. In sostanza, ci si chiede se il principio sancito dalla CGUE nel caso Coleman del divieto di discriminazioni “per associazione”, debba trovare applicazione anche con riferimento al diritto all’accomodamento ragionevole del caregiver che in questo modo diventa depositario di diritti esercitabili nell’ambito del rapporto di lavoro, volti a favorirne una migliore conciliazione con le attività di cura e di assistenza che presta al familiare con disabilità .
Ebbene, la novella del 2021 appare orientata a non circoscrivere la tutela antidiscriminatoria ad un obbligo del datore di lavoro di astenersi dal mettere in atto comportamenti svantaggiosi, deteriori o molesti nei confronti del lavoratore disabile, ma ad estenderla fino a fondare l’obbligo di un’azione positiva del datore di lavoro di riconoscimento della relazione di cura prestata dal lavoratore nei confronti di un familiare con disabilità, mediante un adattamento ragionevole della posizione lavorativa in termini ad esempio di orari flessibili e limiti al trasferimento, allorquando non è possibile fruire di uno specifico beneficio (in quest’ultimo caso, come visto, la fattispecie rientrerebbe nel nuovo art. 2-bis l. n. 104/1992).
Quanto, infine, alla scelta di inserire nella disciplina antidiscriminatoria di genere questi nuovi fattori di rischio, essa può essere giustificata dalla presa di coscienza da parte del legislatore, già anticipata dalla giurisprudenza sopra analizzata, che nella maggior parte dei casi la gestione del tempo di lavoro statisticamente ricade sulle donne per le quali l’intersezione del fattore di genere con quello della maternità (o meglio ancora della genitorialità) e del ruolo di cura aggrava l’effetto discriminatorio, anche quando si trovano in situazioni in cui non possono far valere specifici diritti.
5. Un’osservazione conclusiva
Da quanto detto emerge che il diritto antidiscriminatoria costituisce un puzzle, le cui tessere spesso non combaciano, generando notevoli problemi agli operatori del diritto i quali, quando intendono agire o resistere in giudizio a fronte di una condotta che si presume discriminatoria, devono orientarsi tra disposizioni che divergono quanto alle deroghe e alle giustificazioni consentite, alla legittimazione ad agire, al rito, all’onere della prova, ai rimedi e alle sanzioni.
Ciò significa che il modo in cui può essere contrastata una discriminazione varia da fonte a fonte, e dunque è diverso per ogni fattore protetto. A ben vedere, la stessa possibilità di agire contro una condotta che si suppone discriminatoria dipende dalla normativa applicabile (e dunque dal fattore protetto che rileva nella fattispecie concreta) dato che il campo di applicazione dei divieti di discriminazione varia per ogni fattore.
La l. n. 162/2021 per quanto abbia ampliato la nozione di discriminazione (diretta e indiretta), non ha reso meno chiaro il quadro normativo di riferimento ponendo ulteriori problemi applicativi.
Nonostante ciò, l’intervento legislativo del 2021 conferma il crescente utilizzo del diritto antidiscriminatorio per arginare gli enormi spazi che la normativa riconosce al potere datoriale di modificare la durata o la collocazione temporale della prestazione lavorativa, soprattutto quando tali scelte organizzative potenzialmente (o indirettamente) impattano molto più pesantemente su alcuni dipendenti in posizione di “particolare svantaggio” in quanto maggiormente impegnati nelle attività di cura della prole o familiare, ad onta dell’apparente parità di trat