testo integrale con note e bibliografia
1. Premessa
Le discriminazioni e, in particolare, le discriminazioni per disabilità vanno completamente eliminate, sia attraverso la predisposizione di divieti che tramite l’attuazione di azioni positive, affinché si possa trattare di una società realmente giusta ed inclusiva, capace non solo di riconoscere dei diritti ma anche di garantirli e di renderli effettivi . Sebbene la questione andrebbe risolta anche solo se una persona si trovasse in tale situazione, si osserva che solo nell’Unione europea sono 87 milioni (1 su 4) le persone con disabilità di vario genere e il divario pare ancora ampio se si considera, ad esempio, che il 50% di queste è in uno stato di disoccupazione (contro il 25% delle persone che non vivono questa condizione) .
Il contributo si propone di approfondire il rapporto tra discriminazioni e disabilità concentrandosi nello specifico sul contesto del mercato del lavoro, uno degli ambiti strategici affinché si possa innescare un mutamento sociale che ponga la persona al centro e mostri la diversità, in generale, e la disabilità, nello specifico, come una risorsa .
Verrà tracciato dunque un quadro di riferimento, tentando di dare una sistematicità ad una materia oggetto di frequenti stratificazioni e mutamenti , a partire dalla definizione dei concetti di discriminazione e di disabilità per poi proporre un excursus delle principali fonti sovranazionali e nazionali sul tema, per concludere infine con un approfondimento sui temi dell’accomodamento ragionevole e su due importanti pronunce relative la disciplina del periodo di comporto.
2. Discriminazione e disabilità nelle fonti sovranazionali
Si tratta di discriminazioni quando si realizzano “diversificazioni inique” , dunque con obiettivi illegittimi, adottando mezzi non appropriati e non necessari, oltre che non fondate su requisiti essenziali, ad esempio, allo svolgimento della prestazione lavorativa . Si tratta di vere e proprie violazioni dei diritti umani, tanto che il principio di non discriminazione risulta essere il fil rouge che guida diversi documenti sovranazionali e nazionali sul tema.
Emblematico risulta essere l’articolo 7 della Dichiarazione universale dei diritti umani che non si limita a sancire l’uguaglianza dinanzi alla legge, ma anche il diritto ad “una eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione” .
Si nota che la volontà o meno di attuare una condotta discriminatoria non è un elemento rilevante, affinché si possa compiutamente parlare di discriminazione è essenziale però che tra le caratteristiche su cui si fonda la diversificazione vi sia almeno una delle seguenti: sesso, genere, razza, origine etnica, religione, convinzioni personali, disabilità, età e orientamento sessuale .
A proposito della caratteristica qui di interesse, ossia della disabilità, pare opportuno precisare che la prospettiva con cui è stata affrontata la definizione di tale situazione si è evoluta nel tempo, superando quell’approccio abilista che vedeva in maniera dicotomica non abilità e abilità senza ampliare la propria visione riflettendo sul ruolo che il contesto circostante, materiale e immateriale, può assumere . A questo proposito è stata essenziale la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, che appunto ha come obiettivo la promozione e la garanzia del pieno ed eguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità e la promozione del rispetto per la loro intrinseca dignità, e che ha adottato una nuova prospettiva verso la condizione in esame. Nello specifico la Convenzione, “riconoscendo che la disabilità è un concetto in evoluzione e che la disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali e ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri” , intende per persone con disabilità “coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri”. Si rendono necessarie, dunque, diverse misure, tra cui le progettazioni universali e, qualora queste non fossero possibili, l’accomodamento ragionevole .
Sebbene non vi sia dedicato un apposito obiettivo, tra i Goals dell’Agenda 2030 la parola disabilità è presente trasversalmente, in particolare con riferimento al goal 4 (Fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti), 8 (incentivare una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva ed un lavoro dignitoso per tutti), 10 (Ridurre l’ineguaglianza all’interno di e fra le nazioni), 11 (Rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili), 17 (Rafforzare gli strumenti di attuazione e rinnovare il partenariato mondiale per lo sviluppo sostenibile). Nello specifico i target 4.5 e 4.a sono relativi all’eliminazione delle disparità nell’istruzione e nella formazione professionale e alla necessaria sensibilità a bisogni particolari degli ambienti dedicati, mentre il target 8.5 è volto alla garanzia di un’occupazione piena e produttiva e un lavoro dignitoso, oltre che di un’equa remunerazione per lavoro di equo valore. L’Agenda presta poi attenzione alla generale inclusione sociale, economica e politica con il target 10.2 e alla disponibilità universale a spazi verdi e pubblici sicuri, inclusivi e accessibili (target 11.7). A completamento, tra le questioni sistemiche, viene poi richiesto il monitoraggio di dati relativi al tema per il sostegno allo sviluppo dei paesi emergenti (target 17.18) .
Con specifico riferimento al mondo del lavoro assumono poi rilievo i documenti dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, agenzia delle Nazioni Unite specializzata sul tema. Si ricorda in particolare la Convenzione sul reinserimento professionale e l’occupazione (persone disabili) che, seppur con alcune criticità, è stata il primo strumento internazionale di rilievo in tale ambito .
Alle azioni del contesto internazionale ovviamente si affiancano anche quelle di ambito regionale, tanto che il Consiglio d’Europa è stato tra i principali attori per i diritti umani nel campo della disabilità. Sebbene la Convenzione europea dei diritti dell’uomo non vi facesse esplicito riferimento, la conclusione dell’articolo 14 che vieta la discriminazione per “ogni altra condizione” , si pone in stretta relazione con la Carta sociale europea del 1961 che esplicita il “diritto all’autonomia, all’integrazione sociale ed alla partecipazione alla vita della comunità, a prescindere dall’età e dalla natura ed origine della loro infermità” ad ogni persona portatrice di handicap. Per questo la Carta sancisce l’impegno: “1. ad adottare i provvedimenti necessari per somministrare alle persone inabili o minorate un orientamento, un’educazione ed una formazione professionale nel quadro del diritto comune ogni qualvolta ciò sia possibile oppure, se tale non è il caso, attraverso istituzioni specializzate pubbliche o private; 2. a favorire il loro accesso al lavoro con ogni misura suscettibile d’incentivare i datori di lavoro ad assumere ed a mantenere in attività persone inabili o minorate in un normale ambiente di lavoro e ad adattare le condizioni di lavoro ai loro bisogni o, se ciò fosse impossibile per via del loro handicap, mediante la sistemazione o la creazione di posti di lavoro protetti in funzione del grado di incapacità. Tali misure potranno giustificare, se del caso, il ricorso a servizi specializzati di collocamento e di accompagnamento; 3. a favorire la loro completa integrazione e partecipazione alla vita sociale mediante misure, compresi i presidi tecnici, volte a sormontare gli ostacoli alla comunicazione ed alla mobilità ed a consentire loro di avere accesso ai trasporti, all’abitazione, alle attività culturali e del tempo libero” . Si ricorda inoltre la Strategia sui Diritti delle Persone con Disabilità (2017-2023), adottata nel 2016 per rendere realtà quanto affermato .
Anche con riferimento all’Unione europea , nonostante le origini prettamente economiche della stessa, emerge un importante contributo al diritto antidiscriminatorio, in generale e con riferimento alle discriminazioni per disabilità. I documenti che assumono rilievo sono diversi, si ricordano in particolare gli articoli 2 e 3 del Trattato sull’Unione europea, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che dedica l’intero capo III all’uguaglianza , e molteplici direttive e orientamenti giurisprudenziali . Per quanto qui di interesse pare opportuno fare riferimento nello specifico alla direttiva 2000/78, cui si farà più ampio riferimento in seguito, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro a prescindere dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale .
È inoltre meritevole di menzione la Strategia sui diritti delle persone con disabilità 2021-2030 che, fondandosi sulla precedente (2010-2020), tiene conto delle varie forme che questa particolare condizione può assumere e dei rischi che da questa, e da questa in relazione ad altre caratteristiche, possono derivare, prevedendo diverse iniziative, tra cui la banca dati AccessibleEU o la Piattaforma sulla disabilità che riunisce autorità nazionali, organizzazioni e la Commissione europea . Il documento si pone in relazione anche con la Risoluzione del Parlamento europeo del 7 ottobre 2021 relativa alla protezione delle persone con disabilità che invita alla sensibilizzazione e sottolinea, tra gli altri aspetti, la centralità della consultazione e del coinvolgimento delle organizzazioni delle persone con disabilità in ciascuna fase di “pianificazione, adozione, attuazione e monitoraggio di tutti i tipi di misure, affinché tali misure assicurino la promozione dei loro diritti fondamentali” .
Si ricorda infine il piano NextGenerationEU, “uno strumento temporaneo da 750 miliardi di euro pensato per stimolare una ripresa sostenibile, uniforme, inclusiva ed equa”, ai cui impatti nel contesto italiano è già stato fatto riferimento e che verrà affrontato con specifico riferimento al mercato del lavoro nel paragrafo successivo .
3. Discriminazione e disabilità nelle fonti interne
Il contesto nazionale va analizzato a partire dalla norma fondamentale dell’ordinamento: la Costituzione. Questa non solo sancisce la piena uguaglianza formale di tutti i cittadini, o meglio le persone, ma riconosce anche l’uguaglianza sostanziale, attribuendo alla Repubblica il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” .
Trattando di disabilità e discriminazione, soffermandosi nello specifico sul contesto lavorativo, non può non essere fatto infine un riferimento alla legge 68/1999, norme per il diritto al lavoro dei disabili, che ha subito alcune modifiche nel corso del tempo e che nello specifico prevede servizi di sostegno e di collocamento mirato, ovvero di valutazione delle capacità lavorative e di inserimento in un posto di lavoro adeguato dal punto di vista degli ambienti, degli strumenti e delle relazioni .
La legge prevede delle quote riservate all’assunzione obbligatoria di disabili, ovviamente nelle realtà in cui questo è possibile, differenziandone il livello con riferimento al numero dei dipendenti dell’azienda: nessun obbligo sotto i 15 dipendenti, obbligo di assunzione di una persona disabile per le imprese che impiegano tra i 15 e i 35 dipendenti, di due per quelle che hanno tra i 36 e i 50 dipendenti, e del 7% del numero dei dipendenti per tutte quelle realtà che hanno un numero di dipendenti superiore a 50, escludendo dal computo coloro che sono occupati ai sensi della legge in esame, o con contratto a tempo determinato di durata fino a sei mesi, o che appartengono ad altre categorie esplicitamente previste. Inutile precisare che il trattamento economico e normativo del disabile è equiparato, a parità di mansione e inquadramento, a quello dovuto a un qualsiasi lavoratore comparabile .
Completano il quadro finora delineato ulteriori previsioni specifiche, spesso di derivazione comunitaria e internazionale. Si ricordano a questo ultimo proposito il decreto legislativo 216/2003 di recepimento appunto della già richiamata direttiva 2000/78 , la legge 67/2006 (Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni) , le legge 18/2009 con cui l’Italia ha ratificato e dato esecuzione alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità e il relativo protocollo opzionale, istituendo al contempo anche un Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità , ma anche il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, definito in risposta al piano Next Generation EU di cui sopra, che tra le priorità trasversali dedica una particolare attenzione alla disabilità. Il tema infatti emerge con prospettive diverse, dalla rimozione delle barriere architettoniche, alle attività volte al miglioramento dell’autonomia delle persone con disabilità .
In questo ambito si nota che per quanto riguarda il mercato del lavoro il programma GOL (Garanzia Occupabilità dei Lavoratori – missione 5, componente 1), volto a ridisegnare i servizi per il lavoro e a migliorare l’inserimento lavorativo presta attenzione, tra gli altri, ai lavoratori c.d. fragili, ossia giovani, donne con particolari situazioni di svantaggio, persone con disabilità e over 55 .
È in questo contesto che si inserisce anche la legge 227/2021 con cui il Parlamento ha delegato il Governo alla revisione e al riordino delle disposizioni vigenti in materia di disabilità, elemento necessario affinché la natura programmatica della nostra Costituzione possa effettivamente attuarsi e affinché gli impegni assunti a livello internazionale siano concretamente rispettati “al fine di garantire alla persona con disabilità di ottenere il riconoscimento della propria condizione, anche attraverso una valutazione della stessa congruente, trasparente e agevole che consenta il pieno esercizio dei suoi diritti civili e sociali, compresi il diritto alla vita indipendente e alla piena inclusione sociale e lavorativa, nonché l'effettivo e pieno accesso al sistema dei servizi, delle prestazioni, dei trasferimenti finanziari previsti e di ogni altra relativa agevolazione, e di promuovere l'autonomia della persona con disabilità e il suo vivere su base di pari opportunità con gli altri, nel rispetto dei principi di autodeterminazione e di non discriminazione” .
4. La tutela del disabile e la nozione di “accomodamento ragionevole”.
Nel panorama comunitario la fonte per eccellenza da cui trae origine tutta la disciplina sul tema dell’accomodamento ragionevole – cui fa riferimento l’attuale dottrina antidiscriminatoria - è la direttiva n. 2000/78/CE , che ha determinato un cambio di passo nelle logiche di intervento in materia di discriminazione . Si tratta di una fonte del diritto europeo emanata in applicazione dell’art. 19 T.F.U.E., in virtù del quale il Consiglio “può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale”.
La normativa antecedente è in seguito superata dalla suddetta direttiva che rappresenta una nuova costruzione i cui pilastri sono, da un lato, il divieto di discriminazioni dirette e indirette; dall’altro lato, l’obbligo di adottare soluzioni ragionevoli che adattino l’ambiente e le condizioni di lavoro alle persone disabili .
Nella stessa direzione si muove l’azione a livello internazionale, che affronta il tema della disabilità in termini di “pieno ed eguale godimento dei diritti umani” e di “tutela della dignità” dei soggetti protetti.
La previsione di “soluzioni ragionevoli” che l’art. 5 della direttiva n. 2000/78/CE disciplina al fine di garantire il rispetto della parità di trattamento dei disabili, viene così ripresa dalla Convenzione ONU in una accezione più lata al fine di promuovere “l’eguaglianza ed eliminare le discriminazioni, gli Stati Parti prenderanno tutti i provvedimenti appropriati per assicurare che siano forniti accomodamenti ragionevoli” . Autorevole dottrina ha così ritenuto che obblighi di contenuto positivo si affiancano a divieti di discriminazione, secondo il doppio binario già tracciato dalla normativa comunitaria. Ne discende che la Convenzione ONU “ha introdotto un vero e proprio cambio di paradigma nell’approccio al tema della disabilità, fornendone una lettura improntata ad una nuova visione culturale, scientifica e giuridica imponendo agli Stati membri di ideare ed implementare interventi cha da una modalità settoriale e speciale approdino ad un approccio globale per la costruzione di una società pienamente inclusiva e di un ambiente a misura di tutti” .
Il quadro normativo e giurisprudenziale comunitario appena descritto non è stato immediatamente recepito nell’ordinamento italiano. Infatti, il d.lgs. n. 216/2003 aveva omesso, in sede di attuazione della direttiva n. 2000/78/CE, di includere le disposizioni di cui all’art. 5, trascurando la parte più significativa e innovativa della disciplina sovranazionale.
Come è noto, nel 2013 la Corte di Giustizia ha condannato l’Italia per non aver “imposto a tutti i datori di lavoro di prevedere, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, soluzioni ragionevoli applicabili a tutti i disabili”, così venendo meno all’ “obbligo di recepire correttamente e completamente l’articolo 5 della direttiva 2000/78/CE” .
Conseguentemente, nel testo dell’art. 3 del D.lgs. n. 216 del 2003, è stato aggiunto il comma 3-bis ove “viene imposto ai datori pubblici e privati di «adottare accomodamenti ragionevoli (…) nei luoghi di lavoro». La dottrina ha osservato come tale previsione coincida con il più generale dovere di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c. ampliando il novero delle misure idonee a tutelare “l’integrità fisica e la personalità morale” di tutti i prestatori (disabili inclusi) e a garantire loro la conciliazione e la permanenza in un ambiente lavorativo confacente alle esigenze di ciascuno .
Si tratta, come già osservato , di “una definizione di accomodamento ragionevole dinamica” e, in tal senso, fondamentale è stato l’arresto cui è giunta la Suprema Corte nel 2018.
La Corte di Cassazione, infatti, a partire da quell’anno, ha iniziato a fornire alcune nozioni preliminari ed essenziali, quali quella di handicap e il suo fattore soggettivo, a chiarire la ripartizione degli oneri di allegazione e prova, per poi affrontare il tema specifico dei concreti accomodamenti ragionevoli adottabili . A partire dal 2019 diviene granitico il principio secondo cui “in tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di inabilità, sussiste l’obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi ragionevoli nei luoghi di lavoro ai fini della legittimità del recesso” . La giurisprudenza della Suprema Corte, quindi, cerca di affrontare la questione fornendo un’interpretazione costituzionalmente e comunitariamente orientata, con una particolare attenzione ad un “bilanciamento tra i contrapposti interessi delle parti” . Ad ogni modo, da questo esame normativo e giurisprudenziale emerge un principio basilare, concernente “il bisogno di una valutazione complessiva e generale dell’accomodamento possibile, misurato sia rispetto all’organizzazione aziendale, sia alle condotte datoriali”. Occorrerà dunque attuare il bilanciamento degli interessi giuridicamente rilevanti delle parti coinvolte e, in particolare, l’interesse del disabile a preservare un’attività lavorativa compatibile con le sue condizioni fisiche e psichiche nonché, dall’altro, l’interesse dal datore di lavoro ad ottenere una prestazione che sia di utilità all’impresa .
Il rapporto discriminazione e disabilità è stato al centro di un acceso dibattito giurisprudenziale e dottrinale in relazione a due recentissime decisioni della Suprema Corte con particolare riferimento al periodo di comporto e, più in generale, al rapporto tra malattia e licenziamento, avuto riguardo ai principi fondamentali dell’Unione Europea .
5. Licenziamento per superamento del periodo di comporto e disabilità: due recenti pronunce.
Il primo dei due giudizi verteva sull’ impugnazione di un licenziamento asserito dal ricorrente come discriminatorio in quanto consistente nella violazione dei suoi diritti per ragioni di handicap. La Suprema Corte, con sentenza 31 marzo 2023, n. 9095, decideva il predetto giudizio dichiarando l’illegittimità del licenziamento affermando che il datore di lavoro aveva posto in essere una discriminazione indiretta avendo applicato l’articolo del CCNL di riferimento in materia di comporto, senza distinguere assenze per malattia e assenze per patologie correlate alla disabilità .
A seguito di un approfondito ragionamento ove venivano evocati i principi fondamentali dell’Unione Europea in materia di discriminazione per disabilità, la Corte, recependo l’orientamento della giurisprudenza di merito, in base al quale l’applicazione anche al lavoratore disabile dell’ordinario termine contrattuale di comporto costituisce discriminazione indiretta . Secondo quanto affermato dalla Corte costituisce condotta discriminatoria la mancata previsione, per i lavoratori affetti da malattie croniche, di un periodo di comporto specifico, che tenga in considerazione la maggiore esposizione di tali lavoratori al rischio di accumulare assenze in virtù della propria condizione svantaggiata, consolidando i principi affermati dalle Corti di merito. Ciò non significa, come già osservato , “che un limite massimo in termini di giorni di assenza per malattia del lavoratore disabile non possa essere fissato dal legislatore o dalle parti sociali, anche al fine di contrastare fenomeni di assenteismo dovuto ad eccessiva morbilità”. Tale finalità deve essere però “attuata con mezzi appropriati e necessari, e quindi proporzionati, mentre la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio apparentemente neutro del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio”. Così che “la necessaria considerazione dell’interesse protetto dei lavoratori disabili, in bilanciamento con legittima finalità di politica occupazionale, postula, l’applicazione del principio dell’individuazione di soluzioni ragionevoli per assicurare il principio di parità di trattamento dei disabili, garantito dall’art. 5 della direttiva 2000/78/CE (ovvero degli accomodamenti ragionevoli di cui alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, alla cui luce vanno interpretate le direttive normative antidiscriminatorie UE)”.
La Corte si sofferma in ultimo in merito alla questione dell’obbligo di informativa al lavoratore dell’approssimarsi della scadenza del comporto (e della conseguente conoscibilità delle cause dell’assenza) nell’ipotesi in cui il lavoratore, pur sollecitato, a fornire una risposta alla comunicazione datoriale, non aveva dato riscontro.
A tal proposito si evidenzia che nel diritto europeo antidiscriminatorio vige il principio secondo cui la discriminazione ha portata oggettiva, rimanendo del tutto irrilevante ai fini del riconoscimento della sua illiceità l’intento soggettivo del soggetto agente. Tuttavia, nella materia delle discriminazioni per ragioni di handicap la giurisprudenza è divisa. Da un lato, viene affermato che si configura una discriminazione indiretta a prescindere dal comportamento del datore di lavoro e tale responsabilità datoriale non verrebbe meno neppure nel caso in cui lo stesso non fosse stato messo preventivamente a conoscenza della disabilità del lavoratore quale causa dell’assenza; dall’altro lato viene invece affermato che, qualora il lavoratore non abbia reso edotto il datore di lavoro della condizione di handicap e neppure abbia richiesto alle strutture competenti il riconoscimento dell’handicap, tale mancata comunicazione renderebbero legittimo il recesso. Ciò in quanto la non comunicazione avrebbe disatteso il rispetto dell’obbligo di diligenza così impedendo al datore di lavoro di attivare gli adeguati strumenti di protezione .
Peraltro, è condivisibile la tesi che, riflettendo sulla natura degli accomodamenti ragionevoli - che ha quale presupposto che il datore di lavoro sia posto preventivamente a conoscenza della condizione specifica di disabilità - impone al datore di lavoro di attivarsi per predisporre i necessari accorgimenti verificando in autonomia e prescindendo dal contenuto del certificato medico esibito dal lavoratore l’ascrivibilità delle assenze alle patologie invalidanti e senza che il lavoratore sia tenuto a specificarne la correlazione con la disabilità .
Alla luce di quanto detto circa la conoscibilità del datore di lavoro delle cause dell’assenza, si osserva come la sentenza riaffermi la natura oggettiva dei divieti di discriminazione, a prescindere dall’intenzionalità o meno del comportamento discriminatorio datoriale e del fatto che egli era stato messo a conoscenza del motivo dell’assenza del lavoratore. Dunque, l’intervento di legittimità avvalora l’orientamento della giurisprudenza di merito circa la natura di doveroso accomodamento ragionevole di un termine di comporto differenziato per i lavoratori disabili, ritenendo tuttavia ammissibile che un tale termine sia individuato anche in via generale dalla contrattazione collettiva.
La seconda pronuncia su cui è intervenuta la Suprema Corte riguardava un caso licenziamento per non proficuità della prestazione resa, poiché modo, tempo e durata delle assenze avevano finito per incidere apprezzabilmente sulla prestazione del lavoratore rendendola inutilizzabile o comunque non utile.
La Corte di Cassazione ha precisato che, secondo il preesistente indirizzo giurisprudenziale , le norme stabilite per i casi di malattia del prestatore di lavoro (disciplinati ai sensi dell’art. 2110 c.c.) prevalgono in quanto speciali sulla disciplina dei licenziamenti individuali così impedendo al datore di lavoro di risolvere il rapporto nella costanza del periodo di comporto, quello in cui l’assenza va tollerata lei limiti temporali previsti dalla legge ovvero dal giudice “nell’ottica di un contemperamento tra gli interessi confliggenti del datore di lavoro (a mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce) e del lavoratore (a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi, senza perdere i mezzi di sostentamento)”. Da tale principio discende che “lo scarso rendimento e l’eventuale disservizio aziendale, determinato dalle assenze per malattia del lavoratore, … non possono legittimare, prima del superamento del periodo massimo di comporto, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo” .
Dunque, va condiviso l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità laddove afferma che il licenziamento connesso ad elevata morbilità del lavoratore dovrà quindi sempre qualificarsi, alla luce della pronuncia in commento, come recesso per giustificato motivo oggettivo, che si collega “da un lato all’esistenza di una o più malattie e dall’altro al fatto oggettivo del tempo complessivamente trascorso in malattia”, Da tali premesse discende che il datore di lavoro è sempre tenuto a rispettare il periodo di comporto anche nel caso in cui si verifichi l’inutilizzabilità della prestazione per le assenze accumulate dal lavoratore.
Va in ultimo osservato che i giudici di legittimità hanno di recente ribadito che il datore di lavoro non può limitarsi ad allegare un presunto scarso rendimento del lavoratore alla base del licenziamento, salvo il caso in cui assolva all’onere di provare che la causa dello scarso rendimento “derivi da colpevole negligente inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore nell’espletamento della sua normale prestazione” .
6. Conclusioni
Va quindi condiviso, a parere di chi scrive, il principio di diritto di recente ribadito dalla Suprema Corte nell’ultima sentenza citata: il datore di lavoro non può dedurre un presunto scarso rendimento del lavoratore alla base del licenziamento, salvo il caso in cui assolva all’onere di provare che la causa dello scarso rendimento “derivi da colpevole negligente inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore nell’espletamento della sua normale prestazione” .
In conclusione, ciò che consente di superare il divieto di licenziamento prima della scadenza del comporto è il comportamento del lavoratore inadempiente agli obblighi contrattuali. Incombe, tuttavia, sul datore di lavoro non solo di assolvere all’ onere di provare il mancato raggiungimento del risultato o la sua oggettiva esigibilità, ma la negligente condotta da parte del lavoratore nello svolgimento della prestazione lavorativa, attuando un notevole inadempimento che legittima la risoluzione del rapporto ai sensi degli artt. 1453 e ss..