TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. La questione e le sue origini
Come noto il d.lgs. 81/2015, nell’ambito della riforma “Jobs Act”, ha modificato, all’art. 3, la disciplina dello jus variandi, apportando modifiche significative all’art. 2103 c.c., già a suo tempo riformulato dall’art. 13 dello Statuto dei lavoratori .
Nel nuovo art. 2103 c.c. gli spazi per la flessibilità organizzativa del datore di lavoro con riguardo alle mansioni del lavoratore risultano indubbiamente ampliati.
Viene in particolare superato il criterio dell’equivalenza professionale quale limite alla mobilità laterale o orizzontale: il precetto legale dell’equivalenza è stato eliminato in vantaggio di una più elastica possibilità di adibizione a mansioni “riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento” (ma il superamento sembra coinvolgere anche l’aspetto soggettivo, quello riferito alla possibilità per il lavoratore di utilizzare il patrimonio di esperienze acquisite nella pregressa fase del rapporto di lavoro).
Emerge dal nuovo assetto la chiara volontà di affidare, in via indiretta o diretta, un ruolo decisivo nella regolamentazione dello jus variandi ai contratti collettivi , ai quali è rimesso, attraverso l’elaborazione del sistema degli inquadramenti, il bilanciamento tra esigenze delle imprese e interessi dei lavoratori, ed emerge, sullo sfondo, l’idea di attribuire al giudice un parametro oggettivo - per quanto “certi” ed “oggettivi” possano dirsi i riferimenti offerti dalla fonte collettiva - per il vaglio di correttezza dell’agire datoriale. I contratti collettivi sono quelli selezionati secondo i criteri di cui all’art. 51 del d.lgs. 81/2015 , ma resterebbe il margine di operatività delle ipotesi derogatorie di cui ai contratti di prossimità ex art. 8 d.l. 138/2011, conv. con l. 148/2011 .
Rimangono, poi, le possibilità di modifica delle mansioni disciplinate da norme speciali (es.: art. 10, comma 3, e 4, comma 4, l. 68/99, art. 7 d. lgs. 151/2001, art. 42 d.lgs. 81/2008, art. 4 l. 223/1991).
Non v’è in questa sede lo spazio per affrontare l’ampio dibattito interpretativo che dal 2015 anima i commentatori in relazione al nuovo art. 2103 c.c. , quello che ci interessa, ed è l’oggetto del presente scritto, è analizzare quell’impostazione secondo la quale all’ampliamento delle mansioni esigibili nell’esercizio dello jus variandi corrisponderebbe, a cascata, l’estensione dell’obbligo di ripescaggio che compete al datore nell’ambito del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Tema, quello del repêchage, al centro di un rinnovato (ma in realtà, mai sopito) interesse, soprattutto dall’avvio della stagione della disarticolazione delle tutele avverso il licenziamento illegittimo e, in generale, delle riforme sulla disciplina dei licenziamenti (l. 92/2012 e d. lgs. 23/2015), sulle quali si sono poi innestati, con apertura di ulteriori scenari, i noti e significativi interventi della Corte Costituzionale.
Il terreno di scontro, come sempre, è rappresentato dal divieto del sindacato di merito, da parte del giudice, in ordine alle scelte datoriali, che trova il suo fondamento costituzionale nella libertà di iniziativa economica privata ex art. 41 Cost., e che è stato ribadito dall’art. 30, l. 183/2010, in tema di clausole generali (nell’ottica della cristallizzazione dei limiti alla valutazione del giudice, di asserite ragioni di certezza delle situazioni giuridiche e del contenimento del contenzioso), e ancor più rafforzato, sempre con questa disposizione, dopo le modifiche derivanti dalla l. 92/2012, che hanno introdotto l’inciso secondo il quale l’inosservanza dei limiti al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche organizzative produttive che competono al datore di lavoro “costituisce motivo di impugnazione per violazione di norme di diritto”.
In sostanza, secondo alcune ricostruzioni, variamente argomentate , per assolvere correttamente l’onere di repêchage, si imporrebbe adesso al datore di verificare se vi siano altre posizioni lavorative disponibili, dello stesso livello e categoria, o anche inferiori, e a prescindere dal bagaglio professionale e di competenze maturato medio tempore dal lavoratore. Con l’ulteriore interrogativo, quindi, sul se e fino a che punto, nel caso in cui le posizioni disponibili richiedessero competenze o abilità per le quali il lavoratore non risulti adeguatamente formato al momento della modifica organizzativa, il datore debba farsi carico anche dell’obbligo formativo .

2. Ratio delle modifiche all’art. 2103 c.c. e funzione del repêchage: un confronto necessario
Partendo da un piano molto concreto, a me pare che il nuovo art. 2103 c.c. sia stato disegnato per aumentare la flessibilità organizzativa in un contesto gestionale non dismissivo ed abilitare il contratto collettivo, quale sede ritenuta più idonea, a fungere da fulcro del bilanciamento di interessi fra le parti del rapporto nonché alla definizione dell’ambito di estensione del potere datoriale.
Di ciò è possibile ravvisare più indizi. Innanzitutto, il comma 1, venuto meno il valore dell’esperienza professionale del lavoratore, rende necessaria la formazione in tutti quei casi nei quali il lavoratore non sia pronto per svolgere i nuovi compiti, il che è evidentemente insostenibile nel caso di crisi - per via dei costi della formazione - ma anche in ogni situazione in cui la decisione organizzativa non possa attendere i tempi di evoluzione del percorso formativo (salvo i casi in cui esso si possa sostanziare in un brevissimo affiancamento); senza considerare che i tempi di apprendimento sono del tutto soggettivi, e non sempre prevedibili a priori. In secondo luogo, il demansionamento legittimo ai sensi del comma 2 prevede l’invarianza retributiva, e questo, di nuovo, è incompatibile con l’ipotesi di crisi aziendale, ma anche semplicemente con l’esigenza di una gestione più economica dell’impresa. Infine, sempre osservando il comma 2, e assumendo che il licenziamento per g.m.o. costituisca una delle ipotesi di “modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore”, occorre rilevare come il “può” inscritto nella disposizione (con riferimento all’assegnazione a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore) introduca una mera facoltà del datore, e non sia pertanto traducibile, a meno di forzature, in un obbligo.
E quindi, per tutte queste criticità, l’utilizzo della norma che disciplina lo jus variandi per informare il contenuto del repêchage e definirne i confini, imporrebbe all’interprete di aprire una serie di distinguo e di sotto-distinguo nell’ambito delle varie fattispecie del g.m.o. (essendo evidente che un conto è un licenziamento dettato da crisi aziendale, un conto è quello derivante dalla riconversione tecnologica, o dall’esigenza di una maggiore redditività d’impresa) che costituirebbe di per sé la prima negazione della sovrapponibilità dei due sistemi.
Ancor meno ritengo convincente l’impostazione intermedia che, nella consapevolezza di queste criticità, propone una trasposizione delle regole dell’art. 2103 c.c. in “versione limitata”, con il via libera ad una ricollocabilità del lavoratore unilaterale, orizzontale o nel livello inferiore, purché ciò consenta di conservare il bagaglio professionale in essere, e dunque non comporti oneri di formazione . Una sorta di ibrido che, mentre ricalca quella di parte della giurisprudenza formatasi nel vigore della previgente versione dell’art. 2103 c.c. – un sistema di cui, va ricordato, stiamo analizzando il superamento – dall’altra non pare tenere di conto, fra le altre cose, del fatto che nel nuovo assetto l’obbligo formativo potrebbe essere imposto direttamente dalla contrattazione collettiva, nella disciplina del passaggio di mansioni o delle ipotesi di fungibilità.
Ecco perché riterrei imprescindibile, per maggior coerenza con le diverse finalità dei due ambiti, ma anche con la salvaguardia del principio di tutela della libertà di iniziativa economica privata (invero messa a dura prova da alcuni fra gli scenari prospettati), assumere come punto di partenza l’idea che quello del repêchage rappresenti un sistema le cui regole, di matrice giurisprudenziale, certamente mobili e destinate a calibrarsi sul caso concreto, nascano ed attengano necessariamente al contesto specifico di una decisione organizzativa idonea ad esaurire il rapporto.

3. Il punto sul repêchage
Nell’ambito delle regole sopra accennate, se ne possono selezionare alcune che, fra quelle più consolidate, possono indirizzare il nostro ragionamento. E’ tradizionalmente accolta l’idea, riproposta anche in dottrina , per cui l’onere di ricollocazione non possa essere inteso in maniera tale da comportare un dovere di creazione di un posto ad hoc per il lavoratore (non si può affrontare qui il tema dei “ragionevoli accomodamenti” previsti dalla normativa antidiscriminatoria per il fattore disabilità, che però potrebbe aprire scenari diversi): essa rappresenta un corollario al principio per cui la decisione organizzativa, purché seria ed effettiva, debba rimanere appannaggio della parte datoriale, ed essere insindacabile per via giudiziale . Quanto alla decisione organizzativa, si è ormai affermato il principio per cui questa possa derivare anche da esigenze di maggiore redditività , potendosi prescindere da un andamento negativo dell’impresa , ed, anzi, essendo perlopiù irrilevanti i motivi (leciti) sottesi alla scelta imprenditoriale . Con il limite dato dal fatto che l’esigenza di maggiore redditività non può e non deve sostanziarsi nella decisione di licenziare il lavoratore per sostituirlo con uno che comporti costi inferiori .
Sulla base di questi elementi, può affermarsi che, a seguito della decisione organizzativa, e nell’ottica della verifica della ricollocabilità, il lavoratore possa essere assoggettato a operazioni di mobilità orizzontale che consentano l’impiego della professionalità di cui il lavoratore abbia già esperienza: precisando tuttavia che qui il richiamo al “bagaglio professionale maturato” deriva non già dall’applicazione di una interpretazione “intermedia” dell’attuale art. 2103 c.c., ma si pone in linea di continuità con la giurisprudenza formatasi sul repechage prima della riforma del 2015 . Ove la mobilità orizzontale non sia percorribile, e sia invece attuabile un patto di demansionamento , sempre con la spendita del bagaglio già maturato, vi sarà l’onere di proporlo al lavoratore, potendo il datore disporre legittimamente il recesso in caso di rifiuto .

4. La questione della formazione
In uno scenario di questo tipo non pare esservi spazio per l’apertura, in via generale, all’obbligo di formazione del lavoratore da ricollocare , anche se non v’è dubbio che un certo qual peso della formazione possa aversi con riferimento al caso concreto, non essendo indifferenti sul tema in discorso le caratteristiche dell’azienda e le politiche in uso per la gestione e/o lo sviluppo delle risorse umane (pensiamo alle strategie di job posting interno, di job rotation e fungibilità, o di promozione di percorsi di lifelong learning): ma anche in questo caso l’eventuale riconoscimento di un onere di riqualificazione a completamento del dovere di repechage costituirebbe nient’altro che l’applicazione del principio generale di buona fede e correttezza, non avendo invece nulla a che vedere con l’attuazione di un presunto obbligo legalmente imposto dalla nuova versione dell’art. 2103 c.c. .
Né mi pare centrato il richiamo, che pure viene talvolta fatto a sostegno dell’estensione dell’obbligo formativo, al tema dei “ragionevoli accomodamenti” previsti dalle disposizioni di diritto antidiscriminatorio, segnatamente in relazione al fattore-disabilità: trattasi di norme appartenenti a un comparto normativo caratterizzato da un regime di specialità, e che riguarda ipotesi nominate, le cui regole non sono estensibili per via analogica.
Altra cosa è infine ritenere che, ove si assuma che il repêchage trovi un limite nel fatto che il licenziando non abbia la capacità richiesta per occupare il diverso posto di lavoro, l’assenza di tali capacità debba risultare da circostanze oggettivamente riscontrabili palesate dal datore di lavoro, perché diversamente ragionando si lascerebbe l’adempimento dell’obbligo alla volontà meramente potestativa dell’imprenditore, o a una valutazione meramente discrezionale, tale da svuotare l’obbligo di ripescaggio da ogni contenuto prescrittivo. La questione attiene, infatti, all’onere della prova e non tanto all’ampiezza dell’obbligo. In questo senso, una recentissima pronuncia di legittimità che pure sembra affermare l’influenza del mutato contesto legale relativo allo jus variandi sull’assetto del repêchage, non pare innovativa, in punto di verifica delle competenze del lavoratore, rispetto agli assetti già consolidatisi in pronunce più risalenti .

5. L’onere della prova e il sistema dei rimedi: l’inevitabile condizionamento dell’impostazione sul g.m.o.
Non si può qui affrontare in maniera sistematica il tema, estremamente ampio, dell’onere della prova del ripescaggio, cui si è poco sopra accennato, ma è evidente come esso risulti certamente influenzato, quanto alla latitudine, dal quadro di regole sostanziali prese a riferimento. E come, ancor prima, qualsiasi riflessione in tema di ripescaggio – ivi compresa, dunque, quella riguardante l’onere della prova – risenta dell’impostazione che si decida di adottare attorno a quelli che possono essere definiti i “massimi sistemi” del g.m.o., e in particolare attorno al se il repêchage afferisca o meno, come si dice, agli elementi “costitutivi” del giustificato motivo oggettivo. . O, detto in altri termini, del se il g.m.o. costituisca una nozione omnicomprensiva (anche dell’onere di repêchage) e inscindibile, con ogni conseguenza anche in punto di tutela, essendo evidente che, laddove il g.m.o. sia ritenuto fattispecie che si articola nella ragione determinante il recesso e nell’assolvimento dell’obbligo di ripescaggio , l’assenza di prova dell’assolvimento dell’onere di ricollocazione del lavoratore, può essere in grado di condurre all’illegittimità dell’atto datoriale per insussistenza del fatto .

6. Ripartire dal “fatto”
Le ipotesi definitorie sul repêchage si rincorrono da sempre; da mera “costruzione giurisprudenziale,” ad “elemento inespresso della fattispecie” del g.m.o., a precipitato del principio del licenziamento come “extrema ratio” (nozione, anche quest’ultima, variamente interpretata e spesso messa in discussione), “cartina di tornasole” dei principi di buona fede e correttezza, e così via .
L’impressione è che, in un panorama di soluzioni tanto suggestive, e tutte articolatamente argomentate in dottrina, non si possa che muoversi, appunto, ripartendo dal ragionamento sul fatto, cosa a cui siamo dovuti divenire particolarmente avvezzi con l’avvio della stagione della disarticolazione delle tutele avverso il licenziamento illegittimo in forza del diverso disvalore dell’atto di recesso.
Seguendo questa opzione ermeneutica, a me particolarmente cara, anche perché mi consente di mettere in pratica uno degli inesauribili insegnamenti del mio Maestro , ed anche sotto un profilo meramente logico, posso dire di ritenere più convincente quella impostazione secondo la quale il repêchage attiene ad un momento diverso e successivo rispetto al “fatto”, che dovrebbe essere identificato unicamente con la scelta organizzativa declinabile secondo le articolazioni previste dall’art. 3 della l. 604/1966 (ragioni inerenti “all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”) . E che vede, cioè, il repêchage, come conseguenza del fatto: se la ragione sussiste e se causalmente incide sulla posizione del lavoratore in modo tale da doverne determinare la soppressione, il datore ha l’onere di verificare la possibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni.
Il che non significa negare che il repêchage entri nella nozione di g.m.o., che la sua violazione non determini l’illegittimità del licenziamento o, peggio, che diventi sempre inutile indagarne il rispetto: significa ritenere che il repêchage, che è parte del g.m.o., sia però “altro” rispetto al fatto (id est la decisione organizzativa) da cui si origina il licenziamento.
Peraltro la ricostruzione si mostra coerente con la tecnica rimediale prevista per il licenziamento disciplinare: nemmeno lì il “fatto contestato” coincide con il g.m.s. o con la giusta causa.
Pare molto persuasiva, a questo proposito l’immagine dei “cerchi concentrici” proposta da un autorevole commento : nel più grande si inscrive il g.m.o., nel più piccolo si inscrive il fatto.
Un licenziamento legittimo per giustificato motivo oggettivo, necessita di una ragione organizzativa sussistente in sé, che determina il venir meno della posizione del lavoratore, ed un nesso di causalità con la conseguenza-licenziamento. In questo quadro, l’assolvimento dell’onere di ripescaggio, quale elemento ulteriore (a completamento e logicamente successivo) rispetto al fatto serve a testare, valutando le possibilità di reimpiego, l’inevitabilità della scelta. Sul piano delle conseguenze, limitatamente a licenziamenti assoggettati all’art. 18 St.l. nella versione attualmente vigente (avendo la riforma Jobs Act riunificato le tutele convogliandole verso la soluzione indennitaria), la violazione del repêchage non integra l’insussistenza del fatto, ma riconduce la fattispecie alle ipotesi “altre” definite dal combinato dei commi 5 e 7, dando luogo alla tutela indennitaria.
Del resto, ricostruzioni che partono da un’opposta visione del g.m.o., e cioè come nozione “inscindibile”, comprensiva anche del repêchage, finiscono talvolta per incorrere in qualche contraddizione.
Così, a mio avviso, la stessa Trib. Lecco 31.10.2022, molto citata dai sostenitori dell’ampliamento, dopo la riforma della disciplina dello jus variandi del 2015, del dovere di repêchage sino a ricomprendervi un onere di riqualificazione del lavoratore. Il caso è stato originato da un licenziamento per g.m.o. dovuto all’affermata obsolescenza della professionalità del lavoratore (non si è trattato quindi di un caso di soppressione del posto, o di una decisione organizzativa dovuta ad una situazione di crisi). Semplificando notevolmente, il Giudice (adito per il reclamo dal datore soccombente nella fase sommaria secondo il rito Fornero avverso il licenziamento), ha ritenuto che in un caso di questo tipo, ovvero di sopravvenuta inutilizzabilità del lavoratore, il datore di lavoro non possa arrestarsi alla prova dell’incollocabilità nei ruoli esistenti, dovendo dimostrare l’inattuabilità (o quantomeno l’antieconomicità) di percorsi di aggiornamento professionale (mediante corsi ad hoc o affiancamento), utili a rendere il lavoratore idoneo alle mansioni disponibili. La pronuncia, mostrando di aderire alla impostazione che vede il repêchage come elemento costitutivo del g.m.o., e ritenendo tale visione conforme a Corte Cost. 1° aprile 2021, n. 59, Corte Cost. 19 maggio 2022, n. 125 e Cass. 18 novembre 2022, n. 34049, ha concluso per la conferma dell’ordinanza impugnata, e dunque per l’illegittimità del licenziamento per insussistenza del fatto, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria prevista ratione temporis.
Al netto delle considerazioni che possono farsi in ordine all’effettiva connotazione in termini di novità di quanto disposto dalla pronuncia di merito, vale la pena qui di segnalare un passaggio nel quale il giudicante, dopo aver ritenuto l’insussistenza della ragione giustificatrice addotta dal datore a sostegno del licenziamento ha affermato (v. pag. 4): “Il difetto di prova della riorganizzazione aziendale sarebbe di per sé sufficiente a determinare il rigetto del ricorso”, salvo poi aggiungere: “Ma anche ammesso che tale riorganizzazione vi sia stata, difetterebbe comunque la prova che da essa sarebbe conseguita l'inutilizzabilità del lavoratore licenziato” . Ma affermare che il difetto di prova della riorganizzazione è assorbente rispetto a tutto il resto, non significa forse ammettere che quello sul repêchage costituisce un accertamento a carattere successivo e secondario ?
Peraltro, il richiamo operato dalla pronuncia alle sentenze della Corte Costituzionale 59/2021 e 125/2022 a fondamento della scelta ricostruttiva sul g.m.o. non è del tutto convincente. Più condivisibile mi pare l’orientamento secondo le quali le due pronunce, non solo non smentiscono, ma addirittura confermerebbero l’ipotesi che il fatto posto a base del g.m.o. non ricomprenda il ripescaggio , con ogni conseguenza anche in ordine alla discutibilità di successive impostazioni giurisprudenziali tendenti ad attribuire alle pronunce della Corte Costituzionale un’efficacia espansiva del rimedio reintegratorio : i due interventi della Corte, infatti, pur avendo depurato il comma 7 dell’art. 18 St.l. dei noti aspetti di irrazionalità (il “manifesta” e il “può”) nella diversificazione fra tutela ripristinatoria e indennitaria, hanno al momento conservato la distinzione fra l’“insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” e le “altre ipotesi” in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo .

7. Ulteriori considerazioni, attorno al tema degli oneri di allegazione e del principio di collaborazione delle parti nel processo
L’idea del ripescaggio come un momento successivo ed esterno al fatto dato dalla modifica organizzativa permette altresì di recuperare una visione dell’articolarsi degli oneri di allegazione nel processo sul g.m.o. ultimamente abbandonata dalla giurisprudenza, ma a mio avviso a torto, che sembra costituire – in attesa di altri interventi sulla materia – una guida insostituibile nel nostro discorso.
Insostituibile, forse, perfino per i convinti sostenitori dell’efficacia espansiva sul repêchage del “nuovo” art. 2103 c.c., in questo caso per arginare derive interpretative poco coerenti con il principio dell’art. 41 Cost., visto che la prova del repêchage, oltre che a imperniarsi su un fatto negativo (l’impossibilità di ricollocazione) rischia di implicare ora il raffronto esplorativo con una serie indeterminata di posizioni, ed anche con le possibilità (e la sostenibilità) dei percorsi formativi per poterle ricoprire (ipotesi che poi trovano ulteriori moltiplicatori a seconda della articolazione territoriale o strutturale dell’azienda). Ciò, senza considerare i nuovi fattori di incertezza che si affacciano nel panorama giurisprudenziale, nel quale adesso pare mettersi in discussione anche il momento di osservazione del repêchage, allorquando si allude all’onere datoriale di verificare la ricollocabilità del lavoratore anche in posti che, seppur non disponibili all’atto della decisione organizzativa, siano destinati a liberarsi in un momento successivo .
Il riferimento è a quegli orientamenti che, nel riaffermare che grava sul datore di lavoro l’onere di provare di avere adempiuto all’obbligo di ricollocazione, evidenziano come ciò presupponga tuttavia il preventivo assolvimento, da parte del lavoratore, dell’onere di dedurre la possibilità del repêchage, anche attraverso l’allegazione dei posti concretamente disponibili , secondo l’idea del dovere di collaborazione delle parti nella delimitazione dell’oggetto del giudizio.
L’orientamento, come noto, è divenuto minoritario a seguito di Cass. 22 marzo 2016, n. 5592, che ha ritenuto inscindibili e integralmente a carico della parte datoriale l’onere dell’allegazione che l’onere della prova , asseritamente in osservanza del principio di vicinanza della prova, sulla considerazione delle difficoltà che il lavoratore incontrerebbe nell’individuazione dei posti di lavoro disponibili in azienda.
Nonostante quest’ultima impostazione sia stata, anche molto di recente, riaffermata dalla giurisprudenza di legittimità , non la ritengo fino in fondo persuasiva, trovando che essa sia probabilmente condizionata proprio dall’idea che il repêchage attenga al “fatto”, e dunque componga con questo un binomio inscindibile: ne deriverebbe l’onere della parte datoriale di avanzare in giudizio una difesa “alla cieca”, al punto cautelativa da includervi anche ciò su cui il lavoratore nemmeno ha sollecitato una verifica.
Non pare pertinente nemmeno il richiamo al principio di vicinanza della prova, dove pare darsi per scontato che la parte più vicina alla prova sia sempre quella datoriale, ma questo potrebbe non essere sempre così, soprattutto quando il discorso si trasla sulle abilità del lavoratore, su quello che questi sa fare o potrebbe fare per essere ricollocato in una mansione non equivalente.
E ci si chiede, quindi, se non debba tornare centrale il principio di collaborazione, e se non sia questa l’impostazione più conforme con il principio della domanda ed alle caratteristiche dell’azione con la quale il lavoratore intenda contestare il licenziamento.
Non ne deriverebbe affatto un’alterazione del carico probatorio, trattandosi di un onere di allegazione meramente derivante dal dovere di esporre i fatti e gli elementi di diritto sul quale la domanda si fonda, sia essa qualificabile in termini di azione di inadempimento , che in termini di azione di impugnativa .
Solo una volta delimitato il campo dell’accertamento giudiziale mediante questa allegazione dovrebbe sorgere, in capo al datore di lavoro, l’onere probatorio della impossibilità di una utile ricollocazione del dipendente licenziato, che va peraltro contenuto entro limiti di ragionevolezza e che può essere assolto, trattandosi di un fatto negativo – come ricordano i vecchi orientamenti – anche mediante il ricorso a presunzioni semplici (come la mancata assunzione di altri lavoratori, in mansioni in ipotesi attribuibili al lavoratore licenziato, entro un congruo periodo di tempo).
Il recupero di queste impostazioni si mostra poi particolarmente coerente con l’evoluzione normativa della disciplina avverso il licenziamento illegittimo e lo spacchettamento delle tutele che sempre più ha indotto a calibrare la domanda e ad organizzare l’allegazione dei fatti in funzione del rimedio richiesto.
Altra questione è quanto specifica debba essere l’allegazione del lavoratore, e questo dipenderà da quanto egli intenda o possa circoscrivere l’oggetto del contendere, se del caso sollecitando l’informativa del sindacato, ma un onere di circoscrizione, appunto, dovrebbe permanere.
Il datore resterebbe onerato della prova sussistenza della ragione giustificatrice, e della non ricollocabilità del lavoratore (circostanza quest’ultima il cui vizio, per quanto detto, dovrebbe comportare una conseguenza meramente indennitaria).
Da ultimo, ma non di minore importanza ai fini del discorso, occorre porre attenzione, nella valutazione di un caso, a distinguere ciò che attiene davvero al repêchage e ciò che, a ben vedere, può essere risolto all’origine limitando il ragionamento alla disamina della veridicità della causale ed al nesso che lega la decisione organizzativa alla risoluzione del rapporto, non essendo infrequente che si verifichi una sovrapposizione fra i due piani. Lo spunto di riflessione è offerto dalla rilettura di una famosa nota di G. Pera, in commento ad una pronuncia del pretore di Firenze del 22 gennaio 1969 , che aveva commesso l’errore, secondo l’Autore, di estendere il sindacato giudiziale al merito della decisione datoriale, quando probabilmente, dagli elementi emersi, si sarebbe potuti arrivare ad identiche conclusioni anche solo sulla base dell’applicazione delle regole ordinarie sull’onere probatorio.
E dunque, per esempio, se il datore ha assunto altri nelle immediatezze del licenziamento nelle mansioni occupate dal lavoratore, si potrebbe versare nell’ambito della sussistenza in sé della causale, e non del repêchage; se il datore ha licenziato per esubero di personale, sapendo che è pendente il preavviso di dimissioni di alcuni lavoratori in esubero , forse ciò che viene in questione non attiene al repêchage, potendo invece - di nuovo - trattarsi di un problema di veridicità della ragione o del nesso causale. Si afferma, poi, che il repêchage serva a verificare che non vi siano ragioni nascoste rispetto alle quali il licenziamento per g.m.o. si ponga come mero pretesto, ma se queste ragioni attengono ad una ipotesi fraudolenta o a una rappresaglia, siamo nell’ambito del motivo illecito, unico e determinante, che incombe al lavoratore ricorrente provare; e così via, ricordando – in coerenza con quanto detto sopra – che, ove si sia già verificata l’insussistenza della ragione organizzativa (e non si versa nell’ambito di un licenziamento a tutele differenziate ex art. 18 St.l.), tale verifica assorbe quella sul repêchage. Secondo una sorta di “principio di minimizzazione” che consenta di accertare i fatti, nel rispetto delle regole generali, e del bilanciamento degli interessi delle parti contrapposte, riducendo allo stretto necessario indagini che rischiano di travalicare nel sindacato di merito della scelta imprenditoriale, all’interno di una materia nella quale la necessità di una revisione organica pare davvero non più procrastinabile .

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